Io vorrei dire una cosa su
questo convegno, su questo nostro contro processo. Scusate. I media hanno
pubblicizzato la cosa mettendola sotto il segno del Fuori. C’è stato un
equivoco. Non so la colpa di chi è, se dei giornali, degli organizzatori o di
noi stessi che spesso veniamo confusi con altri gruppi, ma con il Fuori noi non
c’entriamo niente. Io non ne faccio parte…
La mia polemica con i compagni
del Fuori è soprattutto questa: per quella totalità che Pasolini voleva
abbracciare, che era stata il punto di partenza e di arrivo della sua attività
creativa, di rifiutare il ghetto e tutte le strumentalizzazioni di tipo
politico, anche di una parte politica minoritaria e che lotta per
l’emancipazione degli omosessuali.
Per cui questo nostro
processo a Pelosi è un processo simbolico che non vuole nessuna condanna e
nessuna assoluzione, ma si ripromette di ricordare, e non solo retoricamente,
la perdita di Pasolini. Soprattutto, intendiamo ricordare che niente di
concreto, di reale, è stato fatto dai
magistrati che si occupano del caso, perché secondo quella che è stata la
sentenza di primo grado, niente è stato fatto per ritrovare, per rintracciare i
complici di Pino Pelosi, o in ogni caso, per far sì che le indagini fossero
continuate.
Voglio dire che non vorremmo
che questo processo facesse marcia indietro e quella piccola conquista di
verità, che era stata la sentenza di primo grado, fosse annullata, considerati
anche gli errori compiuti da quella che si chiama parte civile. Proprio quella
parte civile che non si è presentata al processo di appello è iniziato oggi, ed
io non so se per una forma di protesta o di presunzione, adducendo delle motivazioni,
secondo me, sofistiche. Dicono, in poche parole, i familiari di Pier Paolo:
“Noi abbiamo dimostrato che quella sera Pasolini non era solo con Pelosi e
tanto ci basta. Tutto quello che succederà in seguito, non riguarda più
Pasolini”.
Io non sono mai molto lucido quando
parlo di Pasolini. I rapporti che ho avuto in vita con lui, mi proibiscono di
parlarne in maniera oggettiva. Confesso, dunque
che mi metto sempre dentro il margine della visceralità e della
soggettività. D’altronde, c’è un altro meccanismo che mi scatta dentro, dato
che è chiaro che proiettavo, identificavo su Pasolini una figura grosso modo
paterna e anche materna.
Il padre, diciamo così, era
l’ideologia, era l’intelligenza, era la sapienza. La madre, invece, era la
poesia. Mi sento scrutato, giudicato da Pasolini, continuamente. E’come se
fosse stato un grande Dio che, purtroppo, ha dimostrato il suo difetto, la sua
mortalità. Morendo Pasolini ha compiuto su di me una specie di esorcismo e mi
ha lasciato libero di continuare per la mia strada.
Io non so qual è la mia
strada. E’ la strada di un emarginato, di uno zingaro, di uno che ha scelto di
non compromettersi se non in una compromissione feroce, forse anche in questo
Pasoliniana, nei confronti della società italiana.
Pasolini diceva “Voglio
lasciare l’Italia”. Era uno dei suoi leit motiv degli ultimi tempi. Nel dirlo
c’era l’ironia di chi sa che, in realtà, non può farlo e, forse anche la
prefigurazione della sua morte. Io credo che tutti noi lo sappiamo e un poeta
poi lo sa, forse, non perché ha dei poteri mediatici o telepatici o di
intuizione superiore a quella degli altri, ma lo sa per una specie di magico
rapporto che ha con la realtà.
Pasolini sapeva da
premonizioni, da sogni, dall’inconscio che si svelava attraverso i sogni, che
la morte lo doveva colpire. Non gli piaceva la vita. Non gli piaceva più la
realtà, diciamo la verità.
La verità è quella che
Pasolini ha firmato, concludendo la sua vita terrena.
Lasciamo stare il fatto
oggettivo, politico, della sua morte per mano dei fascisti, come io sono
convinto che sia. E proprio per ragioni
di poesia. Ci arrivo attraverso la poesia, non attraverso la politica, l’ideologia,
a spiegarmi quella morte lì, perché solo chi è impoetico totalmente, chi è
barbaro, chi è nero, può pensare di uccidere un poeta come Pasolini.
Pasolini mi ha lasciato
libero e io, di questa libertà, non so che farmene.
Non so che farmene,
soprattutto perché mi sembra una condanna superiore a qualsiasi prigionia a cui lui mi costringeva. Questo è l’amore
che io ho per Pasolini. Parlarne per me, adesso, non è più neppure uno strazio,
è una specie di confessione di fronte a questo Dio che mi ha tradito.
Bisogna liberarsi dei padri,
bisogna ucciderli, ma Pasolini era un padre di tipo particolare, devo dire, uno
che nella sua ferocia voleva vendetta. Pasolini, da me, vuole vendetta. Perché
era molto feroce nella sua vendetta totale verso chi lo aveva cacciato dal
mondo e dalla società italiana, già nel 1949, e anche prima, uccidendo il
fratello, ammazzato, e non per motivi simbolici, dai comunisti. Eppure lui si
era fatto comunista, per mettersi al di dentro di quello che era stato il
carnefice del fratello.
Io rinnego il mondo
sottoproletario e anche Pier Paolo lo rinnegherebbe, ma non perché ha prodotto
Pino Pelosi, bensì perché ha prodotto quelle persone che, nel loro codice,
hanno come primo barbarico moto del cuore, la vendetta. E i vari Sergio Citti,
Ninetto Davoli e tutti quelli che si erano affratellati in un finto amore, in
un inautentico amore per colui che poi non potevano amare, lo hanno ucciso
un’altra volta, non vendicandolo.
Non lo potevano amare
perché appartenevano ad un altro mondo. Pier Paolo lo sapeva che era un
borghese e che era condannato ad essere tale, e pur essendo comunista non
poteva che trafficarci eroticamente con il sottoproletariato, questo
sottoproletariato che lo ha ucciso un’altra volta, non vendicandolo.
Che cos’è la vendetta?
La vendetta è uccidere Pino Pelosi. E’ un atto che io, borghese, rifiuto, anzi
io, piccolo borghese (voglio infierire su me stesso), con la mia coscienza
rifiuto, perché è un sentimento spregevole, ma che nel mondo dell’omertà, nel
mondo della malavita è un codice regale, è un codice che deve trionfare.
E invece gli amici di
Pasolini non lo hanno vendicato. Si sono comportati come Pasolini d’altronde
sapeva, perché quella era la diagnosi che faceva negli Scritti Corsari: il
sottoproletariato era diventato borghese, piccolo borghese.
Piccolo borghese anche
in questa rimozione della vendetta che Pasolini vuole, perché Pasolini è una persona
che nella sua origine borghese, trascinava tutta la barbarie che ha messo nei
suoi films, nelle sue opere del mondo antico, del mondo trapassato, quella che
Moravia chiama “età dell’oro” e che fa torto a Pasolini, perché Pasolini non
era un reazionario, ma era un rivoluzionario, con tutte le pieghe e i
ripiegamenti di chi guarda il mondo della tradizione, che per un poeta è
qualcosa di fermo, di lucido, di rivoluzionario.
La tradizione non è un
fatto reazionario, è un fatto rivoluzionario scoprirla e nutrirsene. Quando lui
diceva “sono una forza del passato”, era la più grande provocazione che possa
fare un uomo di cultura oggi, perché è il passato che uccide il presente e
uccide il futuro.
Però, il passato sottoproletariato
non ha ucciso il futuro, che poi sarebbe Pino Pelosi. Il processo a Pino Pelosi
per questo, dicevo all’inizio, è un fatto simbolico, perché vorrebbe mettere in
mano a qualcuno di voi, il coltello della vendetta.
Il coltello della vendetta
che, poi, si potrebbe trasformare in una simbolica uccisione di Pino Pelosi,
fatta da colui che protesta e provoca e non ascolta e si nutre soltanto di
parole come purtroppo facciamo noi in
questo momento di passività, di ripiegamento.
Io sono convinto che Pasolini, avrebbe fatto vendicare
un suo amico se fosse stato ammazzato, nella maniera in cui è stato fatto
ammazzare, come lui stesso è stato ammazzato.
Per cui mi sento
colpevole, mi sento vittima di questo mio senso di colpa, mi sento orfano e
tutti questi scatti, emozioni psicologiche che dentro di me convivono, non
lasciano spazio ad una possibilità di oggettività. E’ un fatto traumatico,
l’amore. Diceva Pasolini, “Amare, solo l’amore conta. Solo il conoscere. Non
l’aver amato, non l’aver conosciuto”.
Io qui, in questo momento,
sono consapevole che non mi libererò del fantasma di Pasolini finché non
troverò pace, diciamo così, in un amore verso me stesso. Il fatto che però
possa amarmi, possa chiarirmi (la chiarezza di cui parlava Laura Di Nola),
viene offuscata dalla possibilità che Pino Pelosi sia fatto uscire, magari fra
qualche giorno, solo per il fatto che ha ucciso un grande poeta, un grande
artista come Pasolini e solo perché è questo che la società italiana voleva.
La società italiana è una
comunità di false interpretazioni sociologiche, repressa e fascista nel
profondo, e non produce che mostri, nonostante tutti quelli che l’abbelliscono,
la impreziosiscono con orpelli modernistici. Per cui i Pino Pelosi devono
essere assolti, per carità, per confermare questo tipo di società che non
prevede altro che orrore e menzogna.
E’ un paese di menzogne,
di perfidie, di mostruosità, mai portare sul piano della ragione. Ci si
commuove per Cristina Mazzotti. Intendiamoci,
sono anch’io commosso e ricordo che Pasolini era commosso pure lui per le sorti
di quella ragazza, ma io credo che le vite non valgano tutte alla stessa
maniera. In questo io sono un aristocratico e non sono per niente egualitario.
I discorsi di coloro che dicono che Pasolini valeva quanto una
Cristina Mazzotti, quanto una checca qualsiasi ammazzata sotto un ponte, sono
discorsi di fascisti, di gente orrenda, perché non è assolutamente vero.
La vita di un poeta è la
vita di chi arricchisce la collettività. Siccome s’è perso, però il senso di
che cos’è un poeta e che cos’è la poesia, allora è vero che la vita di un poeta
vale molto di meno di una qualsiasi checca morta sotto un ponte. Perché di
questo Pasolini è contento: valere molto meno di una checca, allora sì, ma non
valere quanto una checca.
E non perché la poesia, la conosce, la sa
soltanto chi capisce che cos’è veramente. Io non lo so spiegare. D’altronde non
c’è riuscito nessuno a spiegare cosa sia la poesia. Son cose che o si sentono o
non si sentono.