Dopo Massimo Consoli e Dario Bellezza, anche Mario Fortunato, con questo articolo apparso sul mensile Liberal nel 1995, scese in campo contro le dark room gestite anche dall'Arcigay e dal Mario Mieli. Un articolo rimasto pressoché sconosciuto alla maggioranza dei membri della comunità glbt del nostro Paese.
UN ATTO DI ACCUSA ALLA COMUNITA’ GAY
CHIUDETE QUEI LOCALI
di amore e morte
di MARIO FORTUNATO
MARIO FORTUNATO |
Una premessa. Vorrei che questo articolo fosse letto come un
preciso atto di accusa contro i media e in subordine contro il movimento gay di
casa nostra. Il motivo è che in Italia, nel momento in cui la diffusione
dell’Aids comincia ad assumere proporzioni terrificanti, i giornali e le
televisioni hanno dimenticato il problema, mentre la comunità gay non appare
più in grado di mobilitarsi efficacemente sul tema.
Succede un fatto strano. Anni addietro, più o meno sul
finire dello scorso decennio, i media nazionali scoprirono l’Aids. La sindrome
da immunodeficienza acquisita, che dilagava in maniera impressionante nel mondo
occidentale e soprattutto negli Stati Uniti, era divenuta la regina delle
notizie. Non passava un giorno senza che giornali e televisioni nazionali non
riferissero un nuovo dato, senza che inchieste e servizi e testimonianze in
proposito non fossero proposti all’attenzione e alla sensibilità dei lettori.
Ricordo in particolare un agosto di qualche anno fa. Forse
perché nulla di significativo accadeva in politica, forse perché nessuna guerra
in quel momento infiammava il pianeta, la campagna sull’Aids aveva militarmente
occupato prime pagine e copertine. Si parlava, molti lo ricorderanno, di “nuova
peste”, “la peste del secolo”, “la peste del duemila”, anche più
spericolatamente “la peste degli omosessuali”…Si raccontavano episodi feroci,
di ferocia e discriminazione, accaduti per lo più, oltre oceano. Ci fu perfino
un giornalista di un settimanale, L’Europeo, che fingendosi sieropositivo se ne
era andato per qualche giorno in giro a Roma e a Milano a verificare sulla
propria pelle quali erano le reazioni più diffuse e comuni delle persone di
fronte a un individuo colpito dal virus dell’Hiv. Stampa e televisioni a parte,
anche le scuole sembravano giustamente sensibilizzate sul tema. Mentre perfino
un ministro della Sanità come De Lorenzo sentiva il dovere di promuovere una
campagna nazionale di informazione (dovere non disgiunto dal senso di
opportunità, se è vero che su quella campagna lucrarono in molti).
Pure, in tanta mobilitazione, invocata e il più delle volte
sostenuta dal movimento omosessuale italiano, colpivano i dati di diffusione
della malattia. Che erano dati per fortuna modesti, in Italia. Così che, mentre
negli Stati Uniti, in Germania, in Francia, in Inghilterra, la malattia mieteva
vittime a un ritmo spaventoso (per qualche tempo, le telefonate e le lettere
agli amici stranieri del sottoscritto sono arrivate a ridursi dei due terzi),
in Italia per fortuna le cose andavano diversamente.
I più colpiti erano i tossicodipendenti. Seguivano gli
omosessuali, gli eterosessuali, gli emofiliaci e via di seguito. I dati
comunque, confrontati con quelli degli altri Paesi occidentali, erano tutto
sommato confortanti. Del resto, riflettendoci adesso, anche i nostri pochi
personaggi pubblici colpiti dal male (gli amici Pier Vittorio Tondelli e
Giovanni Forti, altri i cui parenti preferiscono si taccia in proposito) erano
in realtà persone con una spiccata esperienza di vita o professionale fuori dei
confini nazionali. Il che lascia ragionevolmente pensare che il contagio sia
avvenuto altrove.
Tutto bene, allora, sul fronte dell’Aids? Siamo rimasti un
‘isola compatibilmente felice? Neanche per idea. Lo dicevo prima: a distanza di
una decina d’anni dal primo allarme, in Italia succede un fatto strano. Si
tratta di un vero e proprio paradosso. Del rischio Aids si parla ormai pochissimo. Certo, si dà notizia
se qualche celebrità straniera annuncia al mondo la propria condizione. Si
recensiscono con puntualità i libri o il film che raccontano la malattia (detto
fra parentesi: nessun libro italiano, nessun film italiano). Si riferiscono i
dati sulla diffusione della malattia, che l’Istituto superiore della sanità elabora regolarmente. Ma, una volta
lavata la coscienza, giornali e televisioni tacciono.
Così nessuno si è accorto che secondo gli ultimi dati sulla
diffusione del male in Italia i casi di Aids sono cresciuti nell’ultimo anno in
maniera esponenziale. Non basta. I dati dicono che la malattia si va
diffondendo soprattutto fra le persone al di sotto dei venticinque anni e con
nessuna esperienza di droga pesante. E che è per lo più nelle grandi aree
urbane che il fenomeno trova la sua massima diffusione.
Eccoci dunque al paradosso. Fino a che il fenomeno Aids
investiva gli altri Paesi occidentali, i media italiani, come sempre subalterni
e provinciali, imitando i loro omologhi stranieri, sfornavano a ogni pie’
sospinto inchieste, reportage, informazioni sul tema. Ora che l’Italia sta
conoscendo la tragica diffusione del male, che toccò anni fa a Stati Uniti,
Germania e Francia, il silenzio in proposito è quasi totale. Dove sono le
copertine tambureggianti? Dove le prime pagine? Dove i servizi e le inchieste
televisive? I media nazionali tacciono. Colpevolmente, disgraziatamente,
tacciono.
Silence=death, silenzio uguale morte, era lo slogan dei
gruppi gay americani. Su quello slogan, e poi sul lavoro di artisti come Keith
Haring e Jean Michel Basquiat, di scrittori come Edmund White, Hervé Guibert e
Christophe Bourdin, di cineasti come Cyril Collard e Jonathan Demme, i
movimenti omosessuali di mezzo mondo sono cresciuti e hanno rappresentato un
po’ dovunque la punta più avanzata di ricerca, di informazione, di lotta contro
l’Aids. Non lo stesso in Italia. La comunità omosessuale nazionale è infatti da
questo punto di vista criminalmente arretrata incapace di riflettere e
soprattutto di reagire al problema.
Tempo addietro, in città come New York, San Francisco,
Berlino, Amsterdam e Parigi, un grande dibattito ha investito il mondo e la
cultura gay. Era un dibattito che rimetteva in discussione alcune forme tipiche
dell’esperienza omosessuale come il rifiuto della monogamia in favore della
promiscuità. Il risultato di quel dibattito è stato assai semplice, concreto; a
Parigi come a New York e a San Francisco, le abitudini di vita dei gay sono
cambiate. Gran parte dei bar e dei locali che offrivano agli avventori una back
room (una stanza buia, cioè, dove consumare subito e magari in gruppo un
incontro sessuale) è stata chiusa. Dappertutto, comunque, distributori di
condom e inviti manifesti al safe sex, al sesso sicuro. Sono letteralmente
spariti dalla faccia della terra i cosiddetti bagni americani (cabine per la
toilette sulle cui pareti era praticato un buco dentro cui far passare il
pene). In generale, c’è stata una significativa scoperta della relazione
stabile e della sfera sentimentale. E tutto ciò mentre le associazioni di
sostegno medico e psicologico ai sieropositivi e agli ammalati si
moltiplicavano, come si moltiplicavano le prese di coscienza sul tema delle
unioni civili e dei diritti che ne conseguono.
In Italia, invece, niente di niente. Confidando nei numeri
che , come dicevo, erano modesti fino a pochi anni fa, la comunità gay ha a
poco a poco abbandonato il campo dell’impegno anti Aids. Preoccupati soltanto
di non essere automaticamente associati alla malattia, gli omosessuali italiani
hanno lasciato ai soli gruppi cattolici di base il terreno della solidarietà
concreta. Inoltre nei bar e nelle discoteche omosessuali, perfino in quelle
direttamente gestiti da organizzazioni culturali e politiche come l’Arcigay e
il circolo Mario Mieli, hanno cominciato a comparire e ora abbondano back room
e bagni americani, di modo che la promiscuità sessuale è de facto ancora un
valore. Per il resto di condom si parla assai poco e, quanto al sostegno medico
e psicologico degli ammalati, è stato da ultimo sostituito con sfilate di moda,
esibizioni di soubrette e concorsi di bellezza. Naturale che, anche in ragione
di tanta dissennatezza e di una così radicale mancanza d’informazione, la
comunità gay italiana sia oggi investita
da un incremento di casi di sieropositività fino a ieri impensabile (è accaduto
a chi scrive, tanto per fare un esempio, di contare una decina di casi certi,
tutte persone sotto i ventotto anni, nel corso di un party romano con non più
di quaranta ospiti).
Questa la situazione. Una stampa e un sistema di media così
distante dalla realtà da essere ormai incapace di raccontare le cose se non per
imitazione di quanto fanno giornali e televisioni stranieri. Una comunità
omosessuale incosciente e priva di una cultura propria. Se a questi due elementi
già gravissimi si aggiungono lo sfascio non nuovo della scuola, la situazione
drammatica di gran parte delle strutture ospedaliere pubbliche e infine il
blocco per motivi burocratici assurdi della nuova campagna anti Aids promossa
dall’attuale ministro della Sanità, si capisce come il problema sia destinato
ad assumere forme e proporzioni incalcolabili. Altro che “peste degli
omosessuali e dei tossicodipendenti”. Il problema riguarderà sempre più i
ragazzi italiani, etero e omosessuali che siano, abbandonati al loro destino da
un sistema informativo e di prevenzione a dir poco scellerato. Un sistema in
cui tutti, Stato e alte gerarchie vaticane, media e organizzazioni gay, hanno
fin qui tenuto un comportamento che non esiterei a definire, nero su bianco,
criminale.
Ho detto in principio che questo articolo domandava di
essere letto come un atto di accusa soprattutto contro il silenzio dei media e
in subordine contro la caduta di tensione del movimento gay. Un atto di accusa
per solito nasce da un sentimento di indignazione intellettuale, o da una
rivolta morale. Nel caso di chi scrive, anche se potrà sembrare inelegante
dirlo apertamente, è nato da un altro sentimento: il dolore personale,
insopportabile, per la scomparsa o per la malattia di tanti, giovani amici
stritolati dall’ignoranza e dalla disinformazione. L’idea forse era ingenua:
custodiva però la speranza che all’accusa non dovesse seguire altro dolore.
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