MOVIMENTO GAY

                     WORK IN PROGRESS!!
                                    1978

GAY E MOVIMENTO
da lambda del febbraio 1978

di Enzo Francone




                 La notizia di un’ennesima frattura avvenuta a Milano all’interno del Collettivo di Liberazione Sessuale di V.Vetere mi ha dato lo spunto per delle considerazioni sul come si sta muovendo il MOVIMENTO GAY, o meglio come si stanno muovendo gli omosessuali “politicizzati”.


                Nella storia di questi anni dei gruppi omosessuali,  le polemiche, le diversificazioni e le scissioni non sono state indubbiamente poche. Un riflesso sicuramente delle diversità sociali, di classe, di esigenze esistenziali che esistono fra gli /le omosessuali, ma anche molto di riflesso della condizione di oppressione, di emarginazione, di paure, di non “identità” di non accettazione di se stessi che vengono usualmente scaricate fra noi stessi omosessuali.


 

               Antagonismi che si sono espressi in terminologie verbali “politico-ideologiche” e che invece riflettevano (e nascondevano) il classico antagonismo “personale” tra oppressi, tanto fra froci che fra donne. Nel momento in cui, tanto per fare un esempio, la frattura nel C.L.S. di Milano, ha come prodotto finale unicamente il frantumarsi di un collettivo con la relativa scomparsa totale dalla scena politica dei suoi componenti, mi domando: che senso ha avuto, che cosa ha espresso? Il dubbio che mi sorge è quello che sia stato solamente un ennesimo momento di autonegazione, di autodistruzione. Se veramente voleva essere l’apertura di un’altra situazione di intervento frocetario, di un’aggregazione di gay fatta su basi diverse, penso che non necessitava la lacerante contrapposizione verbale (….scatenante solamente esplosione di odii…), bensì la semplice diversificazione di azione politica, di fatti alternativi. Invece il nulla.

 

               In un momento come questo non mi pare proprio opportuno, necessario creare dei vuoti, delle disgregazioni. Compagni omosessuali, compagne lesbiche se non vogliamo negarci la riappropriazione della nostra vita, non ripiombiamo e/o lasciamo che altri ci facciano ripiombare indietro.

               La consapevolezza che la repressione sessuale gioca sui sensi di colpa, sull’autonegazione, sull’autorepressione agli antagonismi fra gay deve essere costantemente presente nella nostra azione “politica”. Questa consapevolezza è sovente completamente assente nei/lle nuovi/e omosessuali che approdono nei vari gruppi. Così che si assiste ad un ripercorrere di situazioni che potevano essere inevitabili i primi anni di vita del MOVIMENTO GAY, non più oggi. Con questo non vorrei fermarmi semplicemente al livello di lamentele/a. Mi sembra invece che si debba mettere in discussione un metodo politico, di gruppi e singoli omosessuali che fanno soprattutto (anche se non solo) riferimento ai gruppi “autonomi”.

 

              In questi gruppi una delle caratteristiche diffuse è quella della rapida comparsa ma ancora più rapida scomparsa  dalla scena. Dai nomi più disparati e “creativi”, la maggioranza hanno una vita di un anno o due. Si ritrovano in sedi di fortuna, pochi collegamenti a livello nazionali, nessunissima forma organizzativa se pur “alternativa”, centrati unicamente su un lavoro di “presa di coscienza” e dilaniati internamente da “scazzi” personali, da “sparate” massimalistiche e demagogiche, da alti e bassi d’umore, da “svaccamenti” e defezioni continue. Da una parte mi pare giusto riconoscere che alcuni di questi gruppi hanno espresso delle esperienze e dei discorsi interessanti; dall’altra parte però la loro precarietà,vista in un quadro nazionale e nel tempo, determina un’incidenza a livello sociale largo ( e quindi politico) limitatissimo.

 

             La mia esperienza e i miei travagli di vita all’interno del MOVIMENTO GAY mi hanno fatto prendere consapevolezza che la mia liberazione non è un fatto solamente personale- individuale, ma è soprattutto un fatto comunitario, sociale, un rapporto dialettico tra me e gli altri, e che non è un fatto di un giorno, di un mese, di un anno solamente. E’ un processo continuo, legato alla continuità della mia condizione di omosessuale, di emarginato, di oppresso dal regime capitalistico patriarcale.

 

             Vorrei domandare a tutti quei/quelle compagni/e omosessuali aderenti nel passato al FUORI!, al COM o ad altri collettivi e che oggi sono individui  “sciolti”, “disimpegnati”, se per loro la liberazione sessuo-sociale è già giunta per cui non hanno più motivo di “sbattersi”. Non credo proprio. Molti avranno diverse critiche da fare nei confronti del FUORI!, ma non si può certo disconoscere al FUORI! di aver creato una presenza politica su tutto il quadro nazionale, di aver assicurato una presenza, anche se più o meno attiva secondo le situazioni, costante e crescente dal 1971 ad oggi, di aver creato veramente un MOVIMENTO di LIBERAZIONE OMOSESSUALE.

 

              A questo ha contribuito molto l’utilizzazione di sedi fisse quali quelle del P.R. (sempre disponibili al formarsi o al riformarsi di collettivi, quindi punti di riferimento stabiliti con relativi mezzi di comunicazioni quali telefoni, ciclostili ed in molti casi radio. Ma ancora di più penso che abbia contribuito la presenza continuativa dagli anni passati a tutt’oggi di alcuni/e compagni/e omosessuali i quali con le loro consapevolezze acquisite, approfondite e rese comunitarie (senza paure di confrontarsi continuamente con persone e situazioni nuove o più o meno nuove) hanno fatto in modo che non si ripartisse sovente da zero, ma, se pur lentamente il MOVIMENTO progredisse, maturasse e si allargasse.

            

             Tutto questo non lo si riscontra invece nell’ambito dei collettivi “autonomi”che della precarietà e della saltuarietà  ne hanno fatto un metodo politico, pagandolo, a mio avviso, a duro prezzo. Ed in questo gioco sono stati coinvolti sovente anche alcuni collettivi del FUORI!.

             A questo punto viene da domandarsi come molti omosessuali abbiano vissuto o vivano il loro rapporto con i gruppi gay. Nel rispondere mi pare essenziale partire da me stesso, per poter meglio comprendere le realtà altrui.

             Il mio impatto con il FUORI! nel lontano ’72 fu soprattutto razional-politico o nei termini proprio più astrattamente ideologici (come si addiceva ad  un non superato sessantotto) e poco disposto a scendere sul “personale-politico”, sulla mia vita quotidiana, sui miei  bisogni-desideri. Questa tendenza durò per non molto e il momento personale, piacevole e ludico ben presto prevalse.

 

               Un “politico” disalienante in cui l’aggregazione con altri omosessuali era il punto basilare. Trovarmi con degli amici/compagni froci finalmente e tra froci scoprire-analizzare la mia condizione quotidiana di oppresso, emarginato, deriso. Sorgeva l’esigenza anche con delle femministe di giungere ad una vita comunitaria integrale, cosi che partecipai ad una comune gay-femminista. Il momento “politico-serioso” intanto era ormai completamente sovvertito da “spettacolare.provocatorio”. Interventi da travestito per le vie di Torino, nei locali pubblici, nei teatri, nello “psichedelico” dei festival pop dell’underground italiano. Il gruppo erano gli amici con cui mi vedevo, stavo bene assieme, con cui cambiavo la mia vita.

              Nel ’74 la mia consapevolezza di gay si era decisamente affermata, la “presa di coscienza” era avvenuta, il mio personale aveva vissuto e consumato i momenti più spettacolari e divertenti della “dirompenza” omosessuale. Ero avanzato al di là di quello che realmente il contesto sociale riusciva a recepire. Per cui mi si imponeva una svolta o la fuga o il confronto tra le mie acquisizioni e la condizione sociale generale della sessualità. La scelta era la fuga. Così per due anni me ne sono andato in giro per il mondo. Nel ’76 ritornavo in Italia con il desiderio e la voglia di affrontare fino in fondo questo confronto lasciato in sospeso. Ecco, quello che viene fuori dal mio vissuto e da quello che io ho visto  incontrandomi per l’Italia con gli omosessuali dei diversi collettivi è che ci sono due momenti nel rapporto froci/gruppo. Uno è quello del “auto liberazione” o del “personale”, l’altro quello dell’intervento “esterno”, della lotta contro le “strutture” sociali del regime maschilista-patriarcale.

 

              Sul primo momento si basano e si formano le adesioni ai gruppi, si fondano le attività di “presa di consapevolezza si tirano fuori finalmente i desideri e le ansie, si riaggregano froci e lesbiche che il regime vorrebbe isolati e silenziosi. E’ la scoperta del “Omosessuale è bello”, del “ORGOGLIO OMOSESSUALE”. Questo è per molti, però, anche l’unico significato del “collettivo”, un momento propriamente di visione individualistica, di “consumismo individualistico” raggiunto il quale finisce tutto e il gruppo cessa di avere un senso.

              

 Molti se ne ritornano ai propri “trip” individuali, ai ghetti della propria vita individuale.

 

             Chi flippato, chi scazzato, chi per dedicarsi alla comune (un po’ in declino), chi per fare lo scrittore, chi per dedicarsi solo al “grande amore”, chi per diventare una “star” teatrale, chi per andare a Londra, ecc…Giustissimo, ognuno ha i suoi momenti. Ma così il ritrovarsi per incidere sulle realtà sociali dell’oppressione omosessuali, sul quartiere, sulla scuola, sul posto di lavoro, sugli istituti manicomiali, sulle norme giuridiche e sulle mille altre realtà della vita quotidiana svanisce ancora una volta.

 

               La liberazione sessuale a livello sociale, popolare e politico continua a non essere la finalità macroscopica di troppi collettivi gay ( o meglio di troppi gay).

 

                Mi ritrovo, e ci-ritroviamo così allo squallore immutato dalle piccole quotidianità oppressive, allenanti anti-gay che come dieci, quindici anni fa danno come sbocco la morte: a scelta quella fisica o quella esistenziale. Che bella scelta! Si impone una svolta, compagni gay.

 

Enzo Marcone






                                   1993






ANELLI (BABILONIA)
INTERVISTA GRILLINI  GENNAIO 1993

IL FUTURO E’ ROSA?

 

 

 

 

E’ venuto a trovarmi in redazione, di passaggio a Milano tra un’assemblea a Bolzano e

 un incontro a Genova, sempre in forma e disponibile alla discussione.

Franco Grillini è alla guida dell’Arci Gay da otto anni, prima come segretario nazionale e poi come presidente, ha adesso quasi quarant’anni. Cominciamo subito l’intervista.

ANELLI: Quali sono stati secondo te i risultati più significativi ottenuti dall’arcigay in questi anni?

GRILLINI: In primo luogo il fatto che adesso l’omosessualità è diventata visibile, poi che le rivendicazioni degli omosessuali sono sempre più plausibili. Siamo riusciti ad impedire la criminalizzazione degli omosessuali durante la vicenda dell’aids ed infine abbiamo costruito un’organizzazione con circoli sparsi in tutta l’Italia, oramai più che consolidata, anche al Sud, che tratta da pari con le forze politiche e istituzionali a tutti i livelli.

ANELLI: Qual è secondo te la rivendicazione più importante per i gay?

GRILLINI: Sicuramente il riconoscimento delle convivenze di fatto, quella richiesta anche dalle 10 coppie che l’anno scorso in Piazza Scala a Milano hanno chiesto il “matrimonio gay”. Che si tratti di una rivendicazione importante lo dimostra l’arrabbiatura delle gerarchie vaticane; che hanno citato questa manifestazione come una delle ragioni per cui la Congregazione per la dottrina della Fede ha prodotto l’ultimo documento contro gli omosessuali.

ANELLI: Ma non si è trattato di un caso un po’ isolato?

GRILLINI: Forse, ma è rimasto un caso emblematico che sottolinea come a Milano ci sia una presenza molto forte, dal punto di vista sociale, dell’omosessualità. Comunque, anche se si sa che in altre città è più difficile proporre iniziative di questo tipo, speriamo di ripeterla altrove.

ANELLI: Il discorso della coppia gay propone comunque un problema: l’accettazione di sé. Finché gli omosessuali che rivendicano saranno pochissimi, i risultati avranno un significato più simbolico che pratico. Sei d’accordo?

GRILLINI: Non c’è dubbio sul fatto che l’accettazione degli omosessuali sia la questione principale quando si parla della possibilità per i gay di essere felici. Ed è una questione che non credo che sia di facile soluzione. Noi stiamo provando a favorire il discorso dell’autoaccettazione, del coming out, ma devo dire che in Italia, da questo punto di vista, siamo in una situazione più difficile che in altri Paesi.

Per esempio: a Pargi, New York o Londra ci sono concentrazioni della presenza gay molto forte, che hanno consentito un processo di immigrazione interna e favorito quindi la costruzione della comunità omosessuale, che occupa interi quartieri e che ha prodotto cultura e socialità omosessuale. Questi fatti hanno facilitato in modo eccezionale il “venir fuori” delle persone omosessuali.

ANELLI: Se è così importante l’identità omosessuale come mai avete inserito la denominazione “Movimento libertà civile”?

GRILLINI: Qualcuno ci accusava di essere una lobby, di inseguire solo gli interessi dei gay. Per evitare queste critiche, e per avvalorare il fatto che le nostre battaglie sono utili a tutti, abbiamo aggiunto quella frase.

ANELLI: Quali sono secondo te gli ostacoli più importanti che deve combattere il movimento gay in Italia?

GRILLINI : Innanzi tutto l’influenza del Vaticano che è il supporto più importante alla repressione sessuale. Secondo me l’ultima dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede, che chiede la discriminazione dei gay è paragonabile come portata e come gravità e alle leggi razziali promulgate dal regime fascista nel 1938. Poi c’è la famiglia, che nel nostro Paese mantiene un ruolo oppressivo: la paura di spaventare la mamma e di far soffrire i familiari ancora oggi impedisce a molti gay di vivere pubblicamente la loro omosessualità.

Anche i partiti di sinistra e laici, a cui noi facciamo riferimento, non sempre ci favoriscono (salvo casi particolari come quello di Bologna, in cui la giunta di sinistra ha sfidato l’ira della Curia per difendere il Cassero) non dimostrano grande interesse per le rivendicazioni gay.

E’ chiaro che questi e altri motivi sarebbero poca cosa se gli omosessuali fossero meno succubi dei pregiudizi e più sinceri verso se stessi.

ANELLI: L’arcigay è molto impegnato nei rapporti istituzionali e politici. Con che risultati?

GRILLINI: Il nostro lavoro nelle Istituzioni ha prodotto un grande risultato: adesso esistiamo. Le associazioni gay vengono consultate sempre più per i problemi relativi alla condizione omosessuale; la stampa e la televisione ospitano le nostre opinioni; partecipiamo a decine e decine di dibattiti pubblici.

ANELLI: L’altro versante dove siete molto attivi è quello dei locali: Molti bar, discoteche e saune richiedono la tessera Arci Gay per potere entrare. Non lo ritieni un intervento che potrebbe compromettere l’azione politica e sociale dell’associazione?

GRILLINI: No!  La legislazione italiana permette ad associazioni come l’Arci di aprire circoli per i suoi soci eludendo i problemi delle licenze e quelli fiscali. Questo ci permette di aprire locali anche laddove sarebbe impossibile, stando alle regole del mercato. Anche se non sono circoli culturali, sono pur sempre luoghi di aggregazione, e permettono agli omosessuali di conoscersi, di socializzare, per molti di cominciare a vivere la loro sessualità. Certo dobbiamo essere molto accorti e pretendere dai gestori di questi locali più collaborazione. In particolare per quanto riguarda la prevenzione contro l’aids bisogna pretendere azioni più concrete; in caso contrario io credo che dovremo rivendicare la chiusura. Per esempio: le saune che non regalano i preservativi all’ingresso non potranno più essere affiliati all’Arcigay.

ANELLI Per quanto ne so dovrete chiudere diverse saune. Lo farete davvero?

GRILLINI: Non ho difficoltà a ripeterlo. Rivendicheremo la chiusura delle saune che non metteranno i preservativi gratuitamente a disposizione dei loro clienti. Dopo dieci anni di Aids non ci possono essere più alibi per nessuno.

ANELLI : L’arcigay ha fatto tutto quello che si poteva fare per la lotta contro l’aids?

GRILLINI: Sai, quest’anno sono stato a tanti funerali di amici e conoscenti che sinceramente risponderei di no.

E’ un no, perché di fronte a tante morti non possiamo essere ottimisti, ma devo aggiungere che noi abbiamo fatto tutto quello che potevamo: centinaia di conferenze e assemblee, incontri e interventi sui media, migliaia di volantini e preservativi distribuiti in ogni parte d’Italia, consulenze telefoniche e presso i circoli. Nonostante questo credo che abbiamo ancora molto da fare e i circoli saranno molto impegnati su questo tema.

ANELLI: Mi sembra che nonostante tutto i gay tendono a rimuovere il problema aids. Cos’è, menefreghismo o paura?

GRILLINI: Le motivazioni di questa rimozione sono molte. Bisogna tener conto del fatto che molti gay non accettano neppure la propria omosessualità. In questi casi, e purtroppo sono la maggioranza, diventa difficile affrontare le problematiche relative all’Aids, sia verso se stessi che verso gli altri. Per questo ribadisco che il lavoro da fare è ancora molto, e che la lotta all’Aids per gli omosessuali è strettamente legata alla lotta per il diritto alla vita, alla propria vita, all’essere gay e all’essere felici. D’altro canto abbiamo visto in questi anni esempi di gay che hanno dato molto alla lotta contro l’aids: da Enrico Barzaghi e Giovanni Forti a Stefano Marcoaldi, attuale presidente dell’Associazione Solidarietà Aids di Milano.

Queste persone ci hanno insegnato, e non solo a noi, che con l’Aids si può convivere, che questa malattia non è solo morte e disperazione, che insieme possiamo farcela.

Ringrazio anche questi amici perché è anche grazie a loro se ora il movimento gay ha ottenuto quei riconoscimenti istituzionali che ci permettono di trattare con più forza anche in Italia.

ANELLI: Franco Grillini ricopre da tanti anni un importante ruolo pubblico. Come hai fatto a far convivere questo lavoro con la vita privata?

GRILLINI: E’ molto semplice: io faccio politica da quando sono bambino, mi piace farlo e sono disposto a rinunciare a qualcosa per continuare. Certo chi ha avuto relazioni con me in questi anni si è molto lamentato, ma si tratta di pagare un prezzo. Per ora va bene così, poi si vedrà.

ANELLI: Come va l’arcigay? Quanti sono gli iscritti e i circoli?

GRILLINI: Abbiamo appena concluso il programma del 1992 con un’assemblea dei circoli a Napoli e un incontro nazionale a Bologna, dove sono state tracciate le prossime iniziative. Attualmente ci sono circa tredicimila soci, però molti di questi sono soci solo per accedere ai locali affiliati all’arci gay: i “militanti” sono qualche centinaio e operano in trenta circoli sparsi in tutta la penisola, da Milano a Catania, da Cagliari a Firenze, da Genova a Napoli, in tutte le maggiori città c’è un riferimento per gli omosessuali.

ANELLI: Quali sono i programmi dell’arcigay per il prossimo anno?

GRILLINI: In questi anni ci siamo presentati sulla scena politica, sociale e culturale, siamo ormai riconosciuti come validi interlocutori.

Adesso si tratta di tradurre in risultati questa presenza: in particolare a livello legislativo per il riconoscimento delle convivenze gay, per una corretta educazione sessuale nelel scuole e per una più efficace azione di informazione sull’Aids. Occorre poi migliorare il nostro rapporto con i media per una più incisiva azione di controinformazione.

 

                 Ma l’obiettivo  più importante sarà quello di rivitalizzare il lavoro dei circoli di tutta italia con interventi locali: per permettere a tutti di partecipare e di discutere: dobbiamo intervenire per facilitare la presa di coscienza di tutti gli omosessuali, per fare in modo che più persone possibili scelgano di vivere a viso aperto,senza maschere e senza vergogna il loro essere gay.

                 Dobbiamo attrezzarci per una lunga battaglia, per una politica fatta di piccoli passi e di risultati concreti, a cui tutti devono dare il loro contributo. Maggiori saranno le nostre forze in campo e più breve sarà il tempo che ci separa da una società dove gli omosessuali avranno gli stessi diritti degli eterosessuali.

(MARIO ANELLI – BABILONIA GENNAIO 1993)

 

 






ROME GAY NEWS A MILLE LIRE, PERCHE’?


 


 


Perché la politica che abbiamo sempre perseguito è una politica di approccio reale a quelli che sono i problemi reali della nostra comunità:problemi di discriminazione, di emarginazione, di solitudine, di mancanza di affetti…
 
 
 

E questi problemi vanno risolti operando all’interno del tessuto sociale, con una rivoluzione morale che parta innanzitutto dalla nostra stessa comunità, per poi allargarsi alla famiglia, alla società, allo Stato.

E questo scopo non verrà mai raggiunto rivolgendosi alla propria base con una rivista patinata da 10.000 o peggio, da 40.000 lire (!) , predicando la rivoluzione con i titoli in corpo 48, e in realtà cercando di aumentare il dividendo della propria quota sociale.

Così abbiamo la sensazione che qualcuno   stia prendendo per il culo, perché ci sta bene chi fa un discorso commerciale dicendo che fa un discorso commerciale (ed ha tutto il nostro rispetto per questo), ma non ci sta affatto bene chi fa i soldi per se dicendo che lo fa per il bene degli altri. Certa gente sfrutta l’omosessualità in maniera vergognosa, inventandosi circoli culturali che in realtà sono delle vere e proprie industrie, delle miniere d’oro (per loro), dove la tessera costa 20.000 lire e va continuamente rinnovata, e per il biglietto d’ingresso si pagano 10.000 o 20.000 lire a botta, e per le consumazioni 10.000 o giù di lì!





E non si può neanche protestare, visto che il gay che li frequenta è vittima di una feroce repressione psicologica, prima ancora  che sociale e, di conseguenza, non trova il coraggio di ribellarsi, di reagire. Lo stesso coraggio che gli dovrebbe venire proprio dall’appartenenza a quel circolo omosessuale. Il povero gay che finisce stritolato in questo ingranaggio non può neanche protestare, poiché gli sfruttatori fanno proprio affidamento sulla sua paura di uscire allo scoperto con una pubblica denuncia.

E sono gli stessi sfruttatori che stanno cercando di allargare i loro tentacoli come una piovra, sugli altri locali della città.

Il 28 giugno del 1969 fu proprio per reagire ad una situazione mafiosa del genere che i gay di Christopher Street, insorsero all’interno del bar Stonewall. Le monetine gettate con disprezzo contro  la polizia metropolitana di Manhattan non furono che la reazione all’ultima goccia che aveva fatto traboccare il vaso già colmo della pazienza dei newyorchesi costretti, in mancanza di alternative valide, a frequentare i locali gestiti dalla mafia, come li voleva la mafia, ai prezzi stabiliti dalla mafia

L’Italia ancora non ha avuto il suo Stonewall contro la mafia siciliana, o la ‘ndrangheta calabrese che si è infiltrata come un cancro all’interno della nostra comunità. Contro la prepotenza di certi gay che la fanno da padroni minacciando, insultando, diffamando. Non è il caso di cominciare, anche noi, a fare un po’ di pulizia al nostro interno contro i traditori della loro stessa gente, avvantaggiati da  alleanze politiche che ne hanno permessa l’esistenza ed il malo operare attraverso un profluvio di finanziamenti pubblici concessi a pioggia, senza alcun tipo di controllo che non fosse la convenienza partitica?

Quanti calci in culo dovrai prendere ancora prima di deciderti a reagire ed a liberarti dei parassiti che si arricchiscono sulle tue spalle, sulla tua repressione?

MASSIMO CONSOLI

Rome Gay News  del 23 giugno 1993




Speciale 28 giugno

Dove va il movimento gay? In occasione della ‘giornata dell’orgoglio lesbico e gay’ vi proponiamo una tavola rotonda sull’argomento

 

 

CHI SIAMO, DOVE ANDIAMO?

 

 

Dove va il movimento gay? Abbiamo riunito, per discuterne, quattro persone provenienti da esperienze diverse della realtà omosessuale italiana. Si tratta di: Valeria (detta” Wally”, conduttrice de l’Altro Martedì, trasmissione lesbica e gay di Radio popolare di Milano) Giovanni Luigi Giudici (gay credente e animatore della casa per i malati di aids “Eben-Ezer” di Mestre), Franco Grillini (presidente dell’Arci Gay), e Giovanni Dall’Orto  (Babilonia).

GRILLINI: Inizierei dicendo che, a mio parere non si può non dare un giudizio positivo sull’attuale fase del movimento gay in Italia, perché esiste una vasta presenza di gruppi organizzati e perché dagli  inizi siamo passati da una concezione provocatoria del movimento ad una fase più pragmatica, incentrata nella conquista dei diritti e nella realizzazione dei servizi che le organizzazioni gay offrono oggi: abbiamo fatto passi da gigante.

Per esempio non è paragonabile la fase attuale a quella di otto-nove anni fa quando i giornali parlavano poco e male della questione omosessuale, quando per meglio dire non se ne parlava affatto. Adesso se ne parla abbondantemente: tutto sommato l’atteggiamento dei media è corretto, anche le televisioni finalmente parlano abbondantemente di omosessualità, e si è rotto quello che a mio parere era il vero problema degli omosessuali in Italia, cioè il silenzio.

Ora si può costruire una premessa per un movimento che non sia solo composto da tanti gruppi organizzati, ma che sia un movimento che torni ad essere capace di scendere in piazza. L’elemento di insoddisfazione vera che io ho in questa fase: la fatica per il nostro movimento a farsi vedere.

GIUDICI:  Credo che Grillini abbia toccato il punto centrale del problema.

Ricordo quando agli inizi degli anni Ottanta ci si radunava nella sede del Psi a Bologna e per discutere, ad esempio, della formazione di una rivista che affrontasse le tematiche gay, e uscì fuori Babilonia. Da allora ovviamente si sono fatti passi avanti, sia in campo “laico”, sia in campo “religioso”.

Non tutto è però roseo. E’vero che oggi la televisione e la stampa danno abbastanza risalto, e anche con una certa correttezza, all’omosessualità, ma non più di un mese fa c’è stata una trasmissione, Il coraggio di vivere, dedicata proprio a questo tema e ai problemi degli omosessuali a Roma. Ebbene: le telefonate che arrivarono furono tutte contro i gay, anzi, Il coraggio di vivere fu accusato di “diffondere l’omosessualità” attraverso quella rubrica! Si noti che non sempre sono d’accordo con questa trasmissione: è troppo cattolica, e infatti io una volta ne sono stato escluso perché non cattolico: si vede che i malati di Aids non cattolici non meritano di essere presi in considerazione dalla Rai..

Scendere in piazza, tu dici: ecco, questo è veramente ciò che manca. Io ho tentato: tu sai che abbiamo iniziato nel 1980 con i  gruppi credenti ad Agape, la prima riunione, poi sono partiti i vari gruppi: Milano, Padova, Torino eccetera. Ebbene: noi non siamo riusciti nemmeno a farli entrare nelle chiese a gruppi: venivano i singoli e si mischiavano con gli altri. Quindi scendere in piazza so che è un grande problema.

VALERIA: Io sottolineerei un paio di aspetti della mia percezione dell’aspetto femminile del movimento.

Intanto la questione degli spazi è indubbiamente una faccenda che ultimamente è esplosa. Io so di Milano, però mi immagino che sia un desiderio e una ricerca anche per quanto riguarda il resto d’Italia. Ho la sensazione che si cerchino spazi e non si abbia paura di appropriarsene: è appena nato un nuovo locale a Milano, ed è nato dal desiderio delle donne di avere un posto in cui fare le proprie cose: dal mangiare e bere agli incontri, gli spettacoli, i corsi.

Non c’è più la grossa paura di appropriarsene, di dire: noi vogliamo fare delle cose e troviamo il modo per farle. Questo è indubbiamente una tensione che si realizza concretamente; a questo però non segue necessariamente un lavoro culturale, nel senso di andare a scoprire che cosa può derivare dalla propria identità di persone omosessuali. Io penso che avvenga anche per un certo rifiuto dell’identificazione forte: si sta volentieri insieme ma dirsi lesbiche, questo no. Credo che il movimento dovrebbe discuterne di più, perché alla fine si gira sempre intorno  a questo problema.

L’altro aspetto che sottolineerei è il discorso delle ragazze giovani: c’è ancora molto da fare per offrire contatti e possibilità a quelle che entrano nell’ambiente. Non basta che ci siano punti di riferimento o linee telefoniche, perché il problema è riuscire a creare legami per portare queste ragazze alla consapevolezza, all’amicizia e così via.

Attraverso il lavoro che io faccio alla radio ho la sensazione di un estremo bisogno di rispecchiarsi nel gruppo, di confrontarsi. Credo che il bisogno più sentito, a cui dobbiamo dare una risposta, sia quello di potenziare i canali per conoscere altre persone. Anche all’università che frequento vado in giro a mettere i cartelli della radio o delle linee telefoniche, perché c’è fame di contatti.

DALL’ORTO: Io parto dal tema del dibattito: “Dove va il Movimento gay”. In questo periodo ho il dubbio che non stia andando da nessuna parte, perché dietro a una serie di vittorie simboliche, come la casa ai gay a Bologna e Milano, sta un retroterra per cui ci si ostina a non rispondere a domande molto importanti.


E’ perfettamente inutile che noi chiediamo l’assegnazione delle case popolari alle coppie gay, quando poi se anche la ottenessimo ci sarebbero in Italia venti coppie al massimo disposte a fare questa richiesta, “perché se no la mamma mi scopre”, eccetera.

Il movimento gay, e l’Arci Gay in particolare, ha in questo momento proposte che io condivido, ma che presuppongono un tipo di omosessuale che in Italia semplicemente non esiste. Ne abbiamo la prova nelle lettere che arrivano a Babilonia ogni mese, e nelle quali il problema è sempre lo stesso, e nasce sempre dalla non-accettazione della propria identità omosessuale.

Dopo quindici anni io speravo che si sarebbe infine preso atto del fatto che il problema principale in Italia è questo. Per questo negli anni passati  ho scommesso molto su una battaglia culturale, e non ho paura a dire che ho scommesso invano, perché in questo tipo di sensibilizzazione io ho fallito. Certo, il problema va molto più in là del solo movimento gay. Uno dei giudici di Tangentopoli ha scoperto che le aziende coinvolte lavoravano tutte su licenza di brevetti stranieri: questo vuol dire che l’imprenditoria italiana, per tenere passo con le “peculiari” esigenze della politica italiana, ha rinunciato a tenere il passo nella ricerca.

Ecco: temo che il movimento gay italiano si trovi nella stessa situazione. Per inseguire i politici nostrani finiamo per lavorare esclusivamente su brevetti americani: gli americani vogliono i gay nell’esercito e noi pure, gli americani vogliono l’adozione e noi pure, gli americani vogliono il riconoscimento delle coppie e noi pure, senza chiederci caso per caso se la situazione italiana sia paragonabile a quella americana.

La mia risposta e: no, noi siamo diversi dagli americani. Perciò non possiamo permetterci di importare brevetti dall’estero. Non possiamo parlare, che so, di adozione da parte di coppie gay, per il semplice fatto che non siamo ancora riusciti a mettere in piedi coppie lesbiche e gay credibili in Italia.

Temo che condividiamo il peccato originale della politica italiana di questo decennio: spendere oggi le ricchezze del futuro coprendo il buco con una facciata. Ciò che per i partiti italiani sono stati i congressi con le piramidi, per il movimento gay è la frenesia di andare in televisione a qualsiasi costo. Ma noi stiamo ipotecando il futuro in cambio di cosa? Noi diciamo sì ai gay nell’esercito perché così possiamo andare in tv, anche se per farlo dobbiamo rinunciare a un tesoro: la speranza in una società in cui non sia la violenza a risolvere i problemi sociali. Eppure noi siamo un problema sociale…

GRILLINI: Sono d’accordo sul fatto che non bisogna paragonare la situazione italiana a quella americana, ma proprio per questo bisogna rendersi conto di quello che è avvenuto in Italia negli ultimi dieci anni. Se non si capisce che c’è stata una vera rivoluzione per gli omosessuali, non si riesce nemmeno a capire dove può andare il movimento gay. E’ difficile contestare che una serie di battaglie che abbiamo fatto, anche al di là degli effetti pratici che hanno avuto, hanno dato il massimo di visibilità alla questione omosessuale in Italia.

Noi, in questi anni, abbiamo conquistato una cosa che prima non c’era. La questione omosessuale, l’omosessualità come dato di cui non si può non parlare, è una cosa che noi abbiamo conquistato. Questo non c’era, adesso c’è. E io dico: scusate se è poco. Prima non esistevamo, adesso ci siamo.

E non c’è dubbio che in tutto ciò un’influenza degli americani c’è stata: gli americani hanno prodotto una presenza che con l’ultima manifestazione, il milione di omosessuali di Washington, comunque ha, in un mondo che è un villaggio globale, un’importanza anche per noi.

In Italia stiamo tentando un esperimento originale: mentre nel nord Europa e negli Usa la forza del movimento gay deriva dall’essere una comunità grossa, visibile, in Italia sperimentiamo una presenza del movimento omosessuale che riesce a non confinarsi soltanto in alcuni quartieri o soltanto in alcune città, ma riesce a garantire la sua presenza su tutto il territorio nazionale.

Certo che esiste un problema culturale: io vorrei che ci fosse più riflessione. Però a mio parere siamo in presenza di una situazione molto originale: non si fanno solo battaglie simboliche ma anche battaglie pratiche.

Per esempio, è in discussione in questo momento in Parlamento la legge sul razzismo: noi abbiamo chiesto che insieme alle questioni etniche nazionali razziali e religiose sia posto anche il problema del razzismo verso la condizione e l’orientamento sessuale. Questo è un esempio di come alcune battaglie possono essere fatte e vinte, e dello spazio che si apre al movimento gay. Allora qual è il problema: che gli omosessuali in Italia non si fanno vedere?

Non c’è dubbio che la cultura cattolica, il fatto che alcuni omosessuali abbiano introiettato la clandestinità di cui sono vittime e qualche volta anche complici, rende tutto più difficile. Però anche qui noni abbiamo una responsabilità: essere capacVAi di costruire occasioni di mobilitazione per cui vale veramente la pena di “venire fuori”. Voglio ricordare la grande manifestazione che abbiamo organizzato durante il congresso mondiale sull’Aids con cinquemila persone, almeno tremila delle quali omosessuali.

Allora: è vero che in Italia gli omosessuali hanno paura, ma è anche vero che spetta a noi, che abbiamo la possibilità di farlo, costruire occasioni reali di mobilitazione che consentano a milioni di omosessuali di uscir fuori e finalmente farsi vedere.

VALERIA: Ricollegandomi alla questione delle coppie e a quello che diceva Dall’Orto: confermo anche da parte delle ragazze l’assenza di modelli credibili di coppia. Si può anche vedere questa cosa dal punto di vista positivo e dire che comunque la figura della lesbica porta avanti il valore di relazioni ad ampio raggio, magari più relazioni assieme, in un discorso di comunità.

Sono valori positivi, ma manca la figura della coppia lesbica credibile, tant’è vero ce se si fa l’articolo sulle coppie vengono interpellate Sarah e Anna, se si fa la storia della coppia lesbica  su Eva ed Eva sono ancora Sarah e Anna, se c’è la coppia che si sposa in piazza Scala sono sempre loro.

Probabilmente questo pesa anche a loro, però mancano altre coppie lesbiche non dico che si vogliano sputtanare, ma abbiano la possibilità di rendersi credibili per un investimento di coppia di lunga durata, abbastanza “fedele” o che comunque dia un’idea della relazione lesbica. Magari ci sono altri valori positivi, però la figura di una coppia che duri, all’interno del mondo lesbico è proprio assente.

GIUDICI: Qualsiasi movimento quando nasce apre, è vero, molti spazi, ma fa anche errori, che vanno corretti. Per esempio io ho tentato di organizzare riunioni a cui erano invitati i credenti gay con quelli eterosessuali ebbene, quando la riunione è per i gay credenti abbiamo una buona presenza; quando proponiamo la stessa tematica a gay ed eterosessuali credenti insieme, immediatamente la presenza dei gay cala dell’80%.

Quando il “Telefono Amico”, a Padova, ha organizzato una conferenza, la Sala della gran guardia era strapiena, i gay c’erano, ma quasi nessuno, ha preso la parola in pubblico. Hanno parlato gli eterosessuali. Allora dico: una volta queste cose non c’erano: non c’era una rivista, non c’erano le chiese aperte..Le abbiamo aperte, ora è il momento che gli omosessuali prendano coscienza, altrimenti a che servono?

Noi ci siamo battuti, ci siamo “sputtanati”, non dobbiamo accettare che si viva di rendita, che in tv ci vadano i soliti, che alle dimostrazioni magari i gay vengano, ma mentre il corteo va per le strade, loro stiano sotto i portici, come fossero semplici passanti.

Queste cose le dobbiamo dire, non perché vogliamo, noi, diciamo così, “della vecchia guardia”, farci dei meriti, ma per ricordare che queste cose sono state fatte, che c’erano momenti tremendi, bui, e che si sono aperte prospettive, ma che guarda caso la maggior

parte dei gay italiani non prende in mano la palla e non la rilancia.

Forse c’è da riflettere sulla formazione cattolica dell’Italia, così diversa da quella dei Paesi protestanti: là i gruppi si formano, si sciolgono, si autofinanziano; là per legge qualsiasi organizzazione senza scopo di lucro può emettere ricevute e via discorrendo.

Io, che sono protestante, non voglio fare qui proselitismo, per amor del cielo; tuttavia la mentalità protestante ti dice: “organizzati, fai”, mentre l’altra ci ha abituati sempre a dipendere dall’alto. Così quando in un gruppo si trova una persona disponibile, tutti scaricano tutto addosso a quella persona lavandosi le mani. Così diventa difficile dire: tu fa il cassiere, tu il segretario, tu il presidente, perché immediatamente a chi si dà da fare si cerca di scaricate tutto.

DALL’ORTO: Io non sto affatto contestando quello che è stato fatto nel passato. Il problema perciò non è da dove veniamo, ma dove stiamo andando. Il mio timore è : da nessuna parte, perché noi siamo fermi.

Noi crediamo che si debba cominciare a chiedere le case per i gay, e che quando ci saranno, i gay, presi da raptus, le chiederanno. Invece no. Noi dobbiamo cominciare a creare i gay in Italia, dove non ci sono, perché in Italia ci sono ancora i bisessuali, i ricchioni, gli sposati e le velate ma non i gay, cioè proprio il soggetto sociale per cui stiamo parlando. Ci sono al più cinque o diecimila persone: è una bella cifra, ma in confronto ai due milioni e mezzo di lesbiche e gay italiani…

Esempio: Sarah organizza serate lesbiche al Querelle ed ammette anche (novità!) gay maschi. Se non che, dopo due volte i gay iniziano a fare i bulletti etero con le lesbiche, facendo avances sessuali. Risultato:Sarah deve chiudere le serate ai maschi. Ecco: se i gay italiani sono addirittura incapaci di pensare ad un modo di rapportarsi con le donne lesbiche diverso da quello dei bulletti etero.. La carenza culturale è tutta qui..
Grillini non può da un lato dirmi come ha fatto mille volte: “purtroppo noi in Italia non abbiamo Castro Street”, e dall’altro che in Italia noi abbiamo il vantaggio che non ci ghettizziamo nelle vie gay. Si decida: il fatto che non ci sia Castro Street o è un purtroppo o è un fortunatamente.

In America hanno un modello culturale chiarissimo: le minoranze si costruiscono tutte come minoranze etniche, ed anche i gay per vedere riconoscere i propri diritti si auto-teorizzano come minoranza etnica.

In America si risolve il problema delle minoranze etniche costruendo un ghetto fisico: per gli italiani, i negri, i portoricani, i gay, eccetera. Piaccia o no, è un modello culturale: e i gay americano hanno il merito di essere riusciti a sfruttarlo: si sono inseriti nel modello culturale prevalente nel loro Paese e hanno fatto la loro battaglia sfruttandolo.

E i gay italiani? Un po’ vogliono imitare gli americani, e inaugurano la gay street in via Sammartini (c’eri anche tu, il che vuol dire che eri d’accordo, come lo sono anch’io) e un po’ schifano gli americani perché fanno i ghetti. Ecco un esempio di come noi italiani con una mano facciamo e con l’altra disfiamo, col risultato di non andare da nessuna parte.

Non possiamo fingere che un milione di omosessuali a Washington, fatte le proporzioni, siano come cento o mille a Milano. In Italia il movimento gay è un gioco di specchi: siamo cento persone, e tutto il resto è fatto moltiplicando l’immagine con gli specchi.

Allora, decidiamoci. O l’America è un esecrabile esempio o è un modello. Il fatto che non sappiamo rispondere su cosa sia è un altro esempio di come noi stiamo semplicemente vivendo alla giornata senza mai porci le domande fondamentali.

GRILLINI: Visto che hai fatto delle domande credo che sia opportuno dare delle risposte. Io mi arrabbio moltissimo tutte le volte che si parla di qualcosa che fanno gli omosessuali per gli omosessuali e si tira fuori la storia del ghetto; è un argomento molto usato a sinistra, e che viene fatto passare, nonostante sia conservatore, per progressista. E’ una scusa per non fare le cose o per non darci le cose che chiediamo. Ma rispetto all’esperienza americana noi siamo debitori ai nostri amici e compagni del movimento gay: in termini culturali, teorici, di storia…

DALL’ORTO: A maggior ragione: se lo siamo, saperne di più è un dovere. Invece gli italiani dell’America conoscono solo due strade di San Francisco e New York. Stop.

GRILLINI: Certo…non sanno che per esempio in venticinque stati su cinquanta la sodomia è illegale..

DALL’ORTO: Non sanno e non vogliono sapere che in ogni campus americano c’è un gruppo gay che appoggia gli studenti gay, non sanno che in ogni città americana c’è un gruppo d’azione contro l’Aids, non sanno che in ogni parrocchia (sto esagerando) c’è un gruppo dei gay credenti

Voglio dire, non sanno che il movimento gay americano non è Act Up di New York, che hanno visto in Tv: è una rete fittissima, che si basa su una mentalità di partecipazione e responsabilità, che non è quella italiana.

GRILLINI: Ecco, proprio qui volevo arrivare Non è vero, secondo me, che oggi non si possa pensare ad una sedimentazione di identità omosessuale a partire dalle iniziative.

Io non so a quale sistema Giovanni pensi  per la costruzione dell’identità; la mia cultura politica mi porta a pensare che è a partire dal fare che si costruisce l’identità, non certo facendo dei seminari.

L’accettazione della propria soggettività parte da dati reali di un movimento che costruisce cose, fa battaglie, va in piazza, fa vertenze con le istituzioni, si incazza con la Chiesa. Da questo punto di vista non è assolutamente vero che noi siamo in cento, perché il problema che in Italia non esiste una tradizione associativa paragonabile a quella americana, esiste per tutti, non solo per gli omosessuali.

Noi abbiamo ventisette circoli in giro per l’Italia, tutti i ventisette circoli hanno un presidente che è anche portavoce, quindi è in grado di dire nome e cognome. Che poi non tutti siano in grado di fare un comizio o di parlare in televisione di fronte a mille persone, è anche comprensibile, e va ben al di là della paura di essere gay.

Certo, io penso esista uno stacco generazionale fra i giovani e i meno giovani; mentre per la generazione anziana il problema dell’identità era insormontabile, nel senso che non si identificava affatto con l’omosessualità, e diceva che il semplice fatto di avere rapporti sessuali con omosessuali non era assolutamente significativo e fondativo dell’identità, nella giovane generazione nessuno mette più in discussione il fatto di essere omosessuale. Magari lo nascondono, non lo dicono sul lavoro o ai genitori, però per chi ha meno di 25 anni la consapevolezza di essere omosessuale, a mio parere, è un dato abbastanza acquisito.

Esiste un dato generazionale su cui è possibile lavorare per costruire una presenza  omosessuale in Italia, che sia molto più efficace di quanto noi stessi non siamo riusciti ad essere e a fare fino a questo momento.

Per cui mi pare che questo dato importante e positivo che noi comunque abbiamo adesso e al quale noi stessi abbiamo contribuito, perché ci sono molte cose positive a cui abbiamo contribuito, per esempio lo stesso libro di Dall’Orto, Figli Diversi, rappresenta quanto meno una tappa da questo punto di vista. Io non credo che in un altro clima, un libro del genere avrebbe potuto vedere la luce, e non credo che avrebbe avuto il successo che ha avuto, e quindi credo che dobbiamo continuare su questa strada senza confondere i piani, perché a mio parere la presenza omosessuale ha un compito, soprattutto per quanto riguarda un’organizzazione come l’Arci Gay, che a mio parere non  può essere totalizzante. Non si può chiedere all’Arci Gay quello che non è in grado di dare né si può chiedere alla presenza organizzata sul territorio quello che non è in grado di dare.

Io sostengo che alle condizioni dare in Italia, che sono quelle che abbiamo descritto finora e su cui siamo tutti d’accordo, noi siamo riusciti ad operare un grosso elemento di presenza, che ha marcato una profonda modificazione di cultura e costume.

Io dico che bisogna continuare su questa strada, bisogna cercare di conquistare ulteriori elementi nella battaglia per i diritti civili degli omosessuali e che questo è il compito della presenza organizzata degli omosessuali. Compito invece della parte più riflessiva del mondo gay italiano è produrre cultura, che poi può essere socializzata.

Bisogna distinguere fra i compiti di un movimento organizzato e i compiti di altri gruppi. Un movimento deve porsi obiettivi limitati nel tempo e nello spazio, deve cercare di avere il massimo del consenso. Tutti noi siamo insoddisfatti dallo stato di cose presenti: certo che si dovrebbe fare di più ma, come diceva Kant, “facciamo quello che possiamo, accada quello che deve”.

DALL’ORTO: Si certo: come diceva Candide: “Viviamo nel migliore dei mondi possibili e più di questo non si può avere”. E se poi la gente continua a scrivere lettere disperate a Babilonia, cosa fare: questo è il migliore dei mondi possibili..

VALERIA: Io vorrei  sottolineare come nel mondo lesbico lo scarto generazionale di cui dice Grillini non vada nel senso che dice, anzi, ho la sensazione che vada al contrario. Nella generazione della mia mamma o della mia nonna quelle pochissime che uscivano allo scoperto non avevano grosse difficoltà, pur essendo in numero minimo, a identificarsi come lesbiche: dirsi lesbiche per loro era un punto di forza e un grosso elemento di identificazione.

Oggi se vai in un locale come il Querelle, al lunedi per le donne, e fai un giro fra i tavoli, la sensazione è diversa. Io ho distribuito un questionario dell’Arci gay e quello del Coordinamento Lesbiche e Aids sulla questione dell’Aids, e una delle domande era: “Come ti definisci attualmente:omosessuale, eterosessuale bisessuale?”.

Ebbene, nella gran parte dei questionari quella domanda era buca. Ciò vuol dire che le donne a cui ho distribuito il questionario non se la sentono di definirsi omosessuali, addirittura a volte nemmeno di definirsi bisessuali.

Mentre in passato le donne si identificavano, se non nella lotta lesbica almeno in una lotta comune delle donne, oggi definirsi lesbiche è una cosa che nei locali e nei gruppi è rifiutata: non c’è un minimo di coscienza. Ognuna dice: “va bene, vado a letto con  le donne, mi trovo nei locali  per donne, però insieme faccio anche altre mille cose: la mia identità non è lì”. Perché la gente vuole essere di più che “quella cosa”: vuole garantirsi la possibilità di essere altre mille cose. Questo perché ha una cattiva immagine delle lesbiche, quindi non si vuole identificare come lesbica. Perciò quella che va al Sottomarino giallo si veste da “femmina”, perché a lei l’immagine della lesbica fa schifo, e mai si definirebbe lesbica. Tutte danno per scontato che la lesbica DOC, la lesbica visibile, sia la “camionista”, e quindi fanno di tutto per distanziarsene, addirittura rifiutando di definirsi lesbiche.

GIUDICI: A proposito di lettere: io avevo un bollettino, Lettera ai fratelli e alle sorelle, che ora si chiama Casa Eben Ezer.

Di lettere così ne ho ricevute molte anch’io, e anche quando abbiamo aperto la casa dell’aids ho ricevuto richieste d’aiuto con addirittura recapiti segreti, io rispondevo: “va bene, vieni qua”, oppure: “ho ricevuto diverse lettere per te, che cosa devo fare?”, queste persone sparivano.

Molti gay che hanno più o meno la mia età, se non fisica almeno età mentale, hanno la mania di piatire, e quando tu dici che c’è una soluzione al loro problema, fuggono.

Il bello  è che la società si evolve, e sono i gay a non evolversi. Per esempio, nel campo dei gay credenti, abbiamo letto lettere di gay su una rivista come Famiglia Cristiana che anche recentemente ha scritto sulla questione dell’omosessualità, e ancora ha avuto un atteggiamento che si chiedeva nei primi incontri ad Agape tra le Valli valdesi, perché gli omosessuali vogliono essere almeno ascoltati.

Qui a Milano la Caritas ambrosiana ha dato incarico a don Domenico Pezzini di fare uno studio sull’omosessualità.

A Bologna la rivista Il regno ha pubblicato nell’ultimo numero una lettera di Pezzini sulla questione dell’omosessualità, e Pezzini a qualcuno che dice “Lei si interessa di movimento gay  perché probabilmente lei è gay” risponde: “Meglio essere coinvolti che essere estranei”, nel senso pastorale.

Per concludere: non è che voglia tirare conclusioni, però vedo per esempio il gruppo dei gay credenti di Vicenza: è un piccolo gruppo molto attivo, e che ha una forma di spiritualità tutta sua, che io non vedevo un granché bene perché mi sembravano degli spirituali e basta. Bé: io li ho visti impegnati nella raccolta di fondi per la casa per i malati di Aids, e ti dico che soltanto nel 1993 hanno già mandato cinque milioni.

Evidentemente ho dovuto ricredermi. Quando c’è la volontà di fare, tutto il resto non è più un problema…

(Babilonia giugno 1993)

 





                                   1995




COORDINAMENTO PERSONE OMOSESSUALI

C.P.O.

 

1^ STESURA

SPUNTI PER UNA BOZZA PER UN DOCUMENTO PROGRAMMATICO

 

PROGETTO:

CONVEGNO NAZIONALE SUL “MOVIMENTO OMOSESSUALE IN ITALIA”

 

8  giugno 1995

 

 
 

L’idea è nata dall’osservazione dei meccanismi di nascita dei Centri Sociali e dalla loro frequentazione, che ne ha messo in luce le caratteristiche di incertezza e caoticità ma anche, nello stesso tempo, di una certa genuinità e apertura, almeno nelle premesse dei fondatori, anche se più di principio che di consapevolezza per ciò che riguarda i frequentatori. L’idea di strutture, o meglio nuclei di strutture possibili, non centralizzate, decentrate, periferiche,polverizzate il più possibile sul territorio urbano.

Nuclei cioè di elaborazione e formulazione, nonché di divulgazione della cultura omosessuale, coscienti, in ogni caso, che ci piacerebbe parlare di cultura senza ulteriori aggettivazioni, se i tempi fossero maturi (ma non lo sono).

Abbiamo chiamato questo primo tentativo di organizzazione “coordinamento di persone omosessuali” perché tali persone generalmente vivono un isolamento più o meno felice o più o meno drammatico, a seconda dei casi, e i loro momenti socializzanti per lo più si basano sulla frequentazione di estremamente ridotti gruppi amicali o su massificanti attività ludico-ricreative, che non sono ovviamente condannabili in quanto tali, ma solo perché esclusive ed elusive di qualsiasi impegno teso a garantire i propri stessi “egoisticamente sani” interessi personali.

Partiamo quindi dalla consapevolezza un po’ drastica forse che non esiste  a tutt’oggi in Italia un “movimento omosessuale”, se siamo disposti a misurare un fenomeno di tal genere in base a fatti quantitativi e qualitativi (in questa chiave riteniamo innegabile l’affermazione).

Il dato quantitativo è rilevabile esclusivamente in situazioni che prima abbiamo definito ludico- ricreative, mentre il dato qualitativo, è estremamente ristretto come numero di partecipanti (se non addirittura individuale:scrittori, poeti, attori, dissidenti) e come occasioni in cui manifestarsi.

Raro è il caso che lega le due valenze, ed ora fin troppo consumato e obsoleto della prima manifestazione nazionale a Roma dello scorso anno. Non riteniamo si possono considerare occasioni culturali, benché aggregative, quei fenomeni massificanti all’insegna della spensieratezza e del consumismo nelle sue varie forme (dalla musica demenziale al sesso) a cui si appiccicano talvolta troppo esigui ed improvvisati “contenuti”. Un accenno, in questo senso, non si può non fare sulle “dark rooms,” argomento su cui quasi tutti glissano e

giocano economicamente evitandone qualsiasi lettura critica, e anzi proponendole perché è la richiesta del mercato (target).

Il precludere alla vista, in un mondo fatto sempre più di immagini e dominato dall’edonismo esasperato e dal conformismo del bello e prestante (pregiudizio culturale ed estetico che ha ben attecchito nel mondo omosessuale, tanto che chi è out – troppo grasso o magro, brutto o, peggio, povero – non può essere oggetto sessuale, almeno non pubblicamente, e quindi nemmeno di altra considerazione) è un salvare a tutti gli effetti tale giudizio nell’ipocrisia del buio, che cela la mancanza di una accettazione reale e consapevole dell’individuo per quello che è e che vale, in una omologazione spaventosa e dissociata che fa a pezzi le persone e rifiuta di accettarle per intero, ma che al contrario si “consumano” come una merce: una bocca, un culo o un cazzo non importa o è meglio non sapere a chi sono attaccati.

Senza contare poi che la dark room è l’esatta contraddizione del tanto decantato americanistico coming-out.

Non vogliamo con questo dire che siamo contrari al coming-out, al contrario ne valutiamo positivamente la spinta emotiva che riesce a dare agli omosessuali che così riescono a trovare quella fiducia in se stessi e quel coraggio necessario per vivere da omosessuali con gli altri e in mezzo agli altri, ma non siamo d’accordo con quanti ne fanno la bandiera del loro impegno e soprattutto quando la cosiddetta “visibilità” costringe a clichés  desueti e falsi.
 
 
 

 

SE NON ESISTE UN MOVIMENTO OMOSESSUALE NOI CREDIAMO CHE SIA NECESSARIO STIMOLARNE LA CREAZIONE:

1. Per la necessità dei diritti civili che le persone omosessuali vivono, in una mancanza quasi assoluta di pari opportunità ( non solo in italia, ma anche nei cosiddetti paesi avanzati, dove tali persone sono accettate per “rango” o per censo);

2. perché chiesa, istituzioni e partiti politici continuano ad alimentare la tesi dell’associazione omosessualità- devianza con tutte le conseguenze politiche e culturali che ne derivano principalmente sul piano delle libertà individuali;

3. perché ampie fasce di popolazione e organizzazioni politiche (peraltro anche giovanili) dimostrano ancora una intolleranza, che non di rado sfocia nella violenza, lesiva di qualsiasi elementare principio dei diritti umani;

4. per smascherare l’ipocrisia di talune altre fasce di popolazione e organizzazioni sociali e politiche che a parole e in linea  di principio professano un accettazione che, nei fatti, è rifiuto e disinteresse o quanto meno sottovalutazione.


Importante in quest’ottica è stare in mezzo agli altri, di fronte ad una tendenza che ci vuole sempre più emarginati in spazi sempre più specializzati in cui consumare prodotti a sempre maggior costo.

Fare cultura omosessuale vuol dire anche stare all’interno di situazioni diversificate e dall’interno di spazi eterosessuali diffondere la tolleranza e la verità sugli omosessuali che non è una verità, ma tante verità quanti sono gli individui, tale e quale come per gli eterosessuali.

Operare all’interno di questi spazi significa:

A . Stimolare tutti gli individui e gli stessi omosessuali ad un dibattito ricco e aperto attorno alle tematiche connesse con l’omosessualità e la sessualità in generale contro ogni falsità medica e catechistica;

B. Dare a tali tematiche un respiro meno settoriale allargandole ad altre necessariamente più generali, in un’ottica che ravvisi in esse una universalità che riguarda la libertà di tutti gli individui e le modalità associative del futuro e non solo di un gruppo sociale, per quanto interclassista e numericamente rilevante possa essere;

C. Innescare momenti di crisi e quindi di crescita per quanti omosessuali vivono  la loro condizione solo nel frastuono delle discoteche, nel buio dei cinema o tra i cespugli notturni, e per quanti eterosessuali hanno fatto della tolleranza solo un passaporto per la loro ipocrisia.

Comunque sia, non rifiutiamo qui aprioristicamente momenti più intimi, di autoriflessione, in ambiti più chiusi e autonomi, perché anzi siamo convinti che siano momenti forti di presa di coscienza attraverso la comunicazione delle proprie esperienze, conoscenze, informazioni, e che attraverso l’introspezione si possano affrontare e rilevare tutti quegli aspetti che la condizione omosessuale ha costretto da sempre a vivere (soprattutto i giovanissimi e gli anziani) spesso drammaticamente da soli.
E’ questo un lavoro di autovalutazione e autorivalutazione necessario ma profondo, al di là di semplici slogans, e che imprescindibilmente può collocarsi al centro di una crescita di tutto il genere umano.



     
                                     1997

di ALDO BUSI

Babilonia giugno 1997


                  Prepariamoci al 28 Giugno. E’ ormai venuto il momento della trasgressione ultima: assumerci l’impegno di adesione al comune patto sociale con la nostra blanda quotidianità, con i “travestimenti” riconosciuti che di noi fanno veri cittadini.”    

l'articolo di ALDO BUSI su BABILONIA 1997
                 Porto le mani avanti, visto che bisogna prepararsi spiritualmente e, soprattutto, sartorialmente alle manifestazioni del 28 Giugno, festa dell’orgoglio omosessuale: nel 1997 bisogna fare voto di modestia e di coraggio, cioè di normalità e di controcoglioni fino in fondo. Travestirsi un giorno da leoni per campare gli altri 364 da pecore da circo è, ormai e irreversibilmente, da vigliacchi. La diversità sessuale (?  e metto un punto di domanda, perché spesso l’unica differenza fra un maschio omosessuale dichiarato e un altro qualsiasi è, per l’appunto, che il primo è dichiarato – salvo, altrettanto spesso, essere un omosessuale che va anche a donne…) non è una diversità sociale in nulla e per nulla.

                   Alla parata – che non so dove si svolgerà – niente triti e ritriti baloccamenti sull’eterno androgino, quest’anno, nessuna suora, nessun prete, nessuna tetta fuori, nessun travestimento: la parola d’ordinanza è “Vestitevi con gli abiti di tutti i giorni di lavoro” (il che resta comunque un problema con travestiti e trans che, secondo me, con questa giornata e con l’omosessualità non hanno niente a che fare, come, storicamente, niente hanno a che fare le lesbiche con la rivolta di Stonewall – evitino, quelle, almeno quel giorno, le tute da camionista e da gruista).




una pagina di LIBERO del 2009 a testimonianza che,
 dopo 12 anni, nulla è cambiato
in materia di comunicazione:  la cronaca
del gay pride per alcuni media è rimasta pressoché invariata
fino ai giorni nostri 

                    E’ venuto il momento di fare paura, non di suscitare scherno e ridicolo e sufficienza, è venuto il momento di dare lo scandalo estremo e non più di limitarsi a dare ai borghesi e ai familisti il contentino spettacolare per le strade (per la gioia di chi, vedendovi conciati da pattumiera femminilissima/mascolinissima e umiliante sia per gli uomini che per le donne, avrà ogni ragione per assimilare l’omosessualità a una forma di baracconata mostruosa o divertente o da compiangere).


 

                  Il cardinale Giordano di Napoli, l’anno scorso, ha avuto gioco facile nel condannare la manifestazione omosessuale (io, per spirito di parte, ho fatto le mie solite dichiarazioni contro di lui e in difesa dei gay, ma mi sono detto che era anche l’ultima volta che una massa di subculturati orgogliosi – del cazzo – avrebbe avuto il mio appoggio indiscriminato), e quanti, ancora indecisi, hanno visto tutte, ‘ste povere sgallettate travestite da chissàche meno che da persone e da persone e da cittadini comuni si saranno detti, “Bé, se questo è l’ambiente che mi si apre, è meglio che aspetti ancora qualche secolo a uscire fuori”.

 

Una LUXURIA ad uno dei primi pride italiani
(BOLOGNA 1995)
con i suoi travestimenti, riuscirà
ad ottenere la visibilità tanto cercata.
                  La diversità, come è stata concepita fino a adesso – e grossa responsabilità, socialmente e politicamente per noi negativa, in questo senso ha l’Arcigay, che organizza le manifestazioni senza un briciolo di filosofia strategica e, anzi, insistendo nello stesso errore strutturale di far scendere in piazza con gli antichi e pacifici stereotipi di sempre – deve oggi lasciare sgomenti i bigotti e i reazionari per la sua blanda quotidianità, la sua ovvia appartenenza a un comune patto sociale, la sua visibilità politica legata al mondo (e ai travestimenti: casual o giacca e cravatta sono pur sempre degli abiti di scena) di tutti i giorni.

Noi non siamo madri badesse né pin-up né centauri con borchie e belletto, noi non siamo Priscille: noi siamo innanzitutto lavoratori incazzati, contribuenti fiscali incazzati, assistiti sanitariamente (…) incazzati, pedoni incazzati per i predoni da microcriminalità – quando ci va bene.

Se volete fare baldoria, in modo appena appena un po’ meno triste, aspettate un altro Carnevale, non sciupate anche quest’anno la grande occasione del 28 Giugno.

                                                      2003








2003 (per il pride nazionale a Bari scritto su un giornalino tipo aut forse è clubbing pieno di pubblicità di locali oppure è stato fatto appositamente per il pride barese..boh...comunque è interessante)
 
 

DA DOVE VENIAMO:

microstoria del movimento GLBT in Italia

 

 

di Giovanni Dall’Orto

 

ORIGINI
 

La nascita “ufficiale” del movimento di liberazione gay in Italia è simbolicamente fissata al 5 aprile 1972, quando un gruppetto di lesbiche e gay contestò aspramente a Sanremo un congresso sulle “devianze sessuali”e la loro “cura”. La contestazione, anche grazie al lancio di una bombetta puzzolente, costrinse a chiudere l’incontro prima del previsto..Questo successo marcò la prima apparizione pubblica del F.U.O.R.I.! (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano), nato dall’unione fra alcuni minuscoli gruppi di lesbiche e di gay, che avevano scoperto grazie ai loro viaggi (all’epoca i mass-media censuravano rigorosamente questo tipo d’informazioni) in Francia, Gran Bretagna e Olanda il neonato Movimento di liberazione gay. Il Fuori! si caratterizzò all’inizio come gruppo di estrema sinistra, dato che da lì proveniva la massima parte dei militanti, ad eccezione del gruppo di Torino, che si riconosceva nell’area radicale. Il neonato movimento si presentò come realtà mista (lesbiche e gay), anche con la creazione del Fuori! donna, tuttavia le donne lesbiche italiane si sono sempre riconosciute di preferenza (a parte la parentesi dell’Arcigay-Arcilesbica) nel movimento lesbico-separatista, e quindi in Italia la storia del movimento lesbico è separata da quella del movimento gay.

 

 

PRIMA FASE

 

 

Il periodo iniziale del “Fuori!” fu caratterizzato dall’entusiasmo e dalla speranza di una rapida “ribellione” dei gay italiani, sull’esempio di quanto era avvenuto nei Paesi d’Oltralpe..Purtroppo però questa “ribellione” non avvenne mai, e per un motivo banale: mentre all’estero il movimento gay rappresentava solo l’ala più radicale di un più vasto movimento di liberazione “omofilo” che esisteva da decenni, in Italia il movimento gay nasceva dal nulla. Inoltre all’estero il movimento gay aveva come punto di riferimento per la propaganda una serie di locali per omosessuali..che in Italia invece non esistevano affatto. In questa situazione sociale arretrata, il movimento gay, con le sue parole d’ordine d’avanguardia, risultava elitario e, nella sua ostilità verso il mondo “commerciale” (di cui in Italia esistevano troppo pochi, non certo troppi esempi) era lontano dalla vita del gay comune, che non volva solo più politica gay, ma soprattutto più vita e più occasioni d’incontro, specie se viveva nella soffocante “provincia”..Col senso di poi, è facile notare come gli anni successivi siano serviti alla lenta e faticosa costruzione degli elementi fondanti della comunità gay, inesistente nel nostro Paese, e cioè:

-         del mercato gay (che all’estero è ovunque la spina dorsale della “comunità gay”) e della “ coscienza comune” di comunità fra la massa dei gay italiani.

Questo sforzo enorme ha sottratto energie alla battaglia di migliorare le condizioni sociali dei gay: se l’Italia è l’unico grande Paese della UE in cui non esiste ancora nessuna forma di riconoscimento delle Unioni di fatto, un motivo ci sarà..

 


 

SECONDA FASE

 

 

Passato l’entusiasmo della fase iniziale, attorno al 1976 il movimento gay conobbe una seconda fase e si divise in due ali: da una parte i “riformisti” che preferivano “abbassare il tiro per mirare più lontano”, e si federarono al Partito Radicale, dall’altro i “collettivi autonomi” (rivoluzionari), che rifiutavano tale impostazione. Dopo un’iniziale esplosione di attivismo dei gruppi autonomi, verso il 1980 la situazione si ribaltò, e la scena, complice il “riflusso” post-sessantottesco, risultò dominata dal Fuori!. Il successo fu però solo apparente, tanto è vero che il Fuori! si sciolse inaspettatamente nel 1982.

Questo scioglimento sancì simbolicamente la fine di un periodo di lotte: quello in cui il primo obiettivo del movimento gay era dire “ci siamo anche noi” a un’Italia che considerava contrario al “Comune senso del pudore” anche solo nominare l’omosessualità sui giornali (di mostrarla in TV non se ne parlava nemmeno). Quando, a furia di iniziative clamorose (e un pizzico di travestitismo e di provocazione per attirare i cronisti) il tabù fu rotto, un movimento centrato su questi obiettivi smise di avere senso. E infatti questa fase del movimento gay si estinse da sé, di morte naturale.

Chi prese il suo posto, a poco a poco e non senza difficoltà iniziali, fu in neonato Arcigay (fondato nel dicembre 1980 a Palermo), legato all’Arci e quindi ai partiti “storici”della sinistra italiana (Pci e Psi).

La formula del successo di Arcigay fu semplice: Arcigay aveva imparato dal Fuori! la percorribilità di una politica “riformista”(mentre i gruppi rivoluzionari rifiutavano il dialogo con le “istituzioni borghesi”) ma non condivideva l’ostilità programmatica verso la sinistra italiana che caratterizzava gli esponenti di spicco del Fuori!. Questo le permise di contare sull’aiuto (per quanto tiepido..) della sinistra italiana, che negli anni successivi si sarebbe rivelato determinante. Questo spiega come mai la “riformista”Arcigay finì per assorbire tutti i superstiti collettivi autonomi, con l’eccezione del solo “Collettivo Narciso” di Roma, che divenne il Collettivo Mario Mieli, prendendo il nome del leader indiscusso dell’area dei collettivi autonomi, prematuramente scomparso. L’arrivo dell’aids, del quale si iniziò  a parlare seriamente in Italia prima del 1985, creò al tempo stesso una grave crisi e un’occasione.

La crisi fu dovuta al fatto che di colpo tutte le energie andavano concentrate nella lotta a un flagello mortale, nonché alla scomparsa improvvisa di numerosi militanti di spicco: l’occasione fu legata al fatto che per parlare di Aids i gay, per la prima volta, divennero un tema accettabile perfino in Tv (nel 1985) e soprattutto un interlocutore obbligato da parte delle autorità sanitarie e non . Si aprì così una nuova fase di attivismo caratterizzata da tre elementi:

-         dialogo con le autorità, i partiti politici e le associazioni, a tutti i livelli;

-         presenza continua sui mass-media, per familiarizzare gli italiani con i temi della questione omosessuale;

-         propaganda incessante rivolta al mondo gay non-militante sui temi del movimento gay, per fare nascere una nuova generazione che avesse maggiormente a cuore i temi dei diritti civili gay.

I primi cinque anni di questa fase furono quasi monopolizzati dall’emergenza Aids, successivamente la proposta del movimento si articolò maggiormente: fra le nuove richieste emerse per la prima volta nella storia italiana il riconoscimento delle Unioni Civili. In questa fase nacquero anche gruppi espressione di tendenze politiche e culturali diverse, come ad esempio Gay Lib, che raccoglie i gay di centro-destra.

Questa crescita di proposte fu il sintomo di un allargamento crescente della tematica del movimento gay anche al di fuori dell’area politico-culturale di origine.

Infine, in Arcigay la presenza delle donne fu sempre più cospicua e visibile, fino al significativo cambiamento di nome in Arcigay-Arcilesbica.

A partire dal 1995, però, si manifestarono i primi sintomi di “saturazione” della politica gay basata sui tre punti di cui sopra, con un conseguente disagio che causò negli anni seguenti alcune dolorose separazioni (in particolare, quella fra Arcigay e Arcilesbica, e fra l’ala sinistra dell’Arcigay – che uscì per formare i Cobagal – e il resto dell’organizzazione). In questo periodo il disagio è andato crescendo, al punto che i due o tre anni precedenti il Duemila, anno per il quale era pianificato il World Pride a Roma, furono caratterizzati da una conflittualità interna abbastanza elevata, che rischiò addirittura, per un breve periodo, di far fallire lo stesso World Pride.

 

 

TERZA FASE

(QUELLA ATTUALE)

 

 

Il World Pride 2000 e il suo successo trionfale (possibile solo grazie al tempestivo freno posto alle polemiche e alle rivalità interne, di fronte al comune nemico) ha però marcato la fine di questa fase del movimento gay e ne ha reso possibile un’altra. La nuova fase, che è quella in cui stiamo vivendo adesso, è per ora caratterizzata da:

-         possibilità di coinvolgimento nelle iniziative del movimento, per la prima volta, anche dalla massa della comunità gay in senso ampio (il “popolo dei locali”);

-         successo dello sforzo di portare la tematica gay anche ai livelli più alti della politica italiana, simboleggiato dall’elezione in Parlamento di Titti De Simone (presidente di Arcilesbica,Rc) e di Franco Grillini (presidente onorario Arcigay, Ds) nonché dalla rielezione di Nicky Vendola (esponente di Arcigay,Rc);

-         ripresa del dialogo fra realtà GLBT diverse, del quale proprio il “Padova Pride” del 2002 (al quale aderirono gruppi con connotazioni politico-culturali molto diverse, dai Noglobal a Gay Lib) è stato ottimo esempio. In particolare tutto il movimento si giova della ritrovata voglia di partecipare da parte della popolazione italiana in genere, di cui il World Pride era stato solo una prima manifestazione

-         infine, e questa è una novità del BariPride del 2003, apertura del dialogo con le realtà GLBT di una prima pattuglia di politici non solo di sinistra, ma anche di centrodestra. Il BariPride ha infatti ottenuto il patrocinio di istituzioni (Presidenza della Regione Puglia, Provincia di Bari, Provincia di Foggia, Comune di Bari, Comune di Cosenza, Comune di Giovinazzo, Comune di Melpignano), e il sostegno di altre (Provincia di Lecce, Comune di Barletta,Comune di Gioia del Colle,Comune di Fasano, e di molti altri comuni della provincia barese e non) con amministrazioni sia di centrosinistra che di centrodestra. Non è eccessivo dire che da questo punto di vista nel 2003 il sud Italia fa scuola sui temi dell’integrazione.

 

 

Concludendo, oggi il movimento GLBT italiano si trova, come detto, all’inizio di una nuova fase, tutta da inventare.

Da un lato deve fronteggiare la politica sempre più aggressiva e vociante dei suoi nemici (neofascisti, neonazisti, fanatici religiosi e loro alleati e succubi), dall’altro può per la prima volta sperare sulla mobilitazione di un numero crescente di persone GLBT che, pur senza considerarsi “militanti” credono sempre più al progetto e al sogno della “comunità GLBT”. Senza contare l’appoggio sempre più visibile di una parte dell’opinione pubblica eterosessuale..Mai come in questo momento, insomma, il nostro futuro è stato nelle nostre mani.





 

                                                      2009

 



Specialeprideinpiazza


 di SCILTIAN GASTALDI


AUT giugno 2009


 

Una scarpa col tacco è afferrata dalla mano della sua proprietaria. Viene agitata per aria, con movimenti circolari sopra la testa, a mo’ di clava. E finalmente è scagliata verso la polizia, con rabbia, con tutta la forza possibile. E’ una scarpa col tacco numero 45, ed è la sciccosissima calzatura di Sylvia Rivera, una delle tante transessuali che la notte tra il 27 e il 28 giugno 1969 si trovavano dentro un famoso locale gay di Christopher Street, a Manhattan, lo Stonewall Inn. La rabbia di Sylvia non è ancora soddisfatta. Ha almeno un’altra scarpa da tirare, e la sua dignità di transessuale da difendere. Quando pure la seconda calzatura sarà stata lanciata, rimangono tutte le bottiglie di birra, e i bicchieri e le bottiglie di liquore del bar. Sylvia e gli altri avventori dello Stonewall, per lo più altre transessuali, ma anche uomini gay e qualche lesbica, sono furiosi. I controlli della polizia di New York si sono fatti sempre meno giustificabili e più odiosi. Il dipartimento di polizia della città è in mano a un pugno di fascisti omofobi, come del resto è omofobica l’intera società statunitense del 1969, nonostante gli anni siano quelli dei grandi fermenti del Novecento: la rivoluzione studentesca del 1968, il movimento di liberazione degli afro-americani, il movimento pacifista contro la guerra del Vietnam. Tuttavia Harvey Milk, a San Francisco, è ancora uno sconosciuto e privato cittadino, e lo stesso quartiere di Castro, così come il Greenwich Village di New York sono considerati i quartieri degli artisti, non ancora percepiti come “gay village”. Il movimento per la liberazione degli omosessuali americani è agli albori, ha ottenuto l’abrogazione delle leggi più odiose, come quella che vietava di servire alcolici a gruppi di tre o più uomini, ma deve ancora scrivere tutte le sue pagine migliori. Fino a quella sera di fine giugno 1969, essere omosessuali o transessuali significa soltanto essere “strani”, “malati”, “invertiti”. E significa essere discriminati da tutti. Le leggi di quel 1969 sono chiare, dure e sbagliate: esiste perfino un divieto di travestimento. Ogni avventore dello Stonewall Inn deve indossare per obbligo di legge almeno tre indumenti consoni al proprio genere (allora si parla ancora di sesso) e se le cose stanno diversamente, si viene arrestati e portati al commissariato per accertamenti. Si finisce in galera per come si è vestiti, nella New York del 1969. Sylvia Rivera ha paura. Ha paura dei manganelli della polizia, ha paura delle ispezioni corporali, ha paura che una volta arrestata e sbattuta in galera per una notte o più, le possa accadere qualcosa di tremendo. Ma Sylvia e le sue amiche, oltre ad avere paura, non ne possono più. Sono esasperate da tutte quelle violenze, da quegli abusi, da quelle risatine e quelle angherie che quasi tutte le sere il dipartimento della polizia di New York rovescia su di lei e le sue amiche. Lei e gli altri avventori di New York sono stanchi marci di essere trattati peggio di animali. Ed ecco che Sylvia sente arrivare da dentro un’emozione fortissima, che supera l’intensità della paura. E’ la forza della rabbia. E’ in quel momento, nel bel mezzo dell’ennesimo sopruso dei poliziotti,  che Sylvia afferra la sua scarpa col tacco 45 e la scaglia urlando “Gay Power!”contro i poliziotti. Subito viene imitata da tutte le sue amiche e dagli altri gay dentro al locale. I poliziotti sono colti di sorpresa: non è mai successo che i finocchi si ribellassero prima a una ispezione, i tutori della legge non sono equipaggiati per resistere a una sommossa. I poliziotti si spostano in un angolo del locale, tentano di ripararsi con dei tavoli e delle sedie. Sylvia e gli altri avventori li bersagliano per un buon quarto d’ora. Poi, mentre i poliziotti chiamano rinforzi coi walkie-talkie, le transessuali, i gay e le lelle scappano fuori dal locale, vanno a chiamare i loro rinforzi a voce: l’intera Christopher Street ha sentito prima le sirene della polizia, poi le urla e il gran baccano, ed è scesa in strada. Sylvia e le altre gridano, cantano, invocano una rivolta popolare. La gente scende armata di quello che può: sassi, bottiglie,bicchieri, mazze, perfino un parchimetro usato come ariete, per sfondare le porte dello Stonewall Inn, dove la polizia si è intanto barricata. Ora sono i poliziotti a essere spaventati. Ma in strada, fuori dal locale, adesso ci sono centinaia di finocchi e transessuali e lesbiche e gay e bear e leather e checche e travestiti, che premono per entrare nello Stonewall e linciare i poliziotti. Quando arriveranno i 400 rinforzi della polizia, si ritroveranno davanti a una rivolta di strada ch avrà raggiunto le duemila unità. Una rivolta che si estende per tre giorni e che mette a ferro e fuoco un’intera parte di Manhattan, i finocchi hanno detto basta. Hanno smesso di essere favolosamente ironici e si sono incazzati. Sono i moti dello Stonewall.

Sono passati 40 anni dalla rivolta di Christopher Street. Quella notte segna la nascita di un movimento per i diritti delle persone GLBT e contro la discriminazione. Una notte che viene celebrata e ricordata in cinque continenti attraverso la marcia del Gay Pride, e le manifestazioni collaterali che la precedono e la seguono, all’incirca ogni 28 giugno. Durante questi lunghi 40 anni sono cambiate moltissime cose, e tutte in meglio. In Nord America, ogi è già da qualche anno, le persone transessuali possono non solo vestirsi come meglio credono, ma anche farsi operare e avere parte dell’operazione a dalla sanità pubblica. Gli omosessuali possono sposarsi e adottare figli, sia come single che come coppie dello stesso sesso.



In Europa, gli unici Paesi occidentali che sono rimasti al palo, allo stesso punto rispetto al 1969 sono l’Italia, la Grecia e il Portogallo. Se possibile la situazione in Italia è addirittura peggiorata rispetto ai primi anni in cui il movimento GLBT italiano poteva organizzare il suo Gay Pride per le vie e le piazze di Roma, liberamente. Adesso grazie a un sindaco che ha ancora poca dimestichezza con la democrazia e la libertà di manifestazione, e soprattutto grazie a una Chiesa cattolica illiberale e autoritaria, il Pride non può approdare in alcune piazze e non può marciare per alcune vie. E’ un modo per rendere impossibile lo svolgersi della manifestazione, che si ritiene sia volgare e chiassosa. Allo stesso modo, un Parlamento che non intende rappresentare i diritti civili di tutti gli italiani, non ha approvato nessuna legge per il riconoscimento delle unioni di fatto, né tra coppie di sesso diverso, né tra coppie dello stesso sesso.

Davanti a questa tragedia giuridica e sociale, il movimento GLBT italiano ha di certo la sua bella fetta di responsabilità. Eleanor Roosevelt, una lesbica che first lady, una volta disse: “Per essere repressi occorre qualcuno che ti voglia reprimere e qualcuno che si lasci reprimere”. Il movimento GLBT italiano si è lasciato reprimere senza mai ribellarsi. L’ultimo esempio lo abbiamo avuto proprio in casa nostra lo scorso anno, e speriamo non si ripeta quest’anno: il Coordinamento Roma Pride 2008 non ebbe il coraggio di annunciare che Piazza San Giovanni, che fu negata per l’arrivo del corteo, sarebbe stata raggiunta lo stesso sulla base del fatto che esiste una Costituzione che garantisce la libertà di manifestazione e di pensiero. La Costituzione vale più di qualunque regolamento comunale e di ogni bolla vaticana. Un corteo che arrivasse senza autorizzazione a piazza San Giovanni lo potrebbe fare sulla base di ciò che la Costituzione garantisce: il fatto che l’Italia è una democrazia costituzionale e plurale. E si ha paura dei manganelli della  polizia, ammesso che questi vengano adoperati per impedire al corteo la sua marcia, si chiamino in prima linea a marciare con noi rappresentanti non italiani del Parlamento Europeo. E si vada, compatti, uniti, con le nostre bandiere e i nostri carri e la nostra dignità di cittadini italiani. Anche sapendo di poter prendere delle manganellate: la conquista del rispetto e la difesa della libertà di manifestare può passare anche per qualche osso rotto, e la storia del Gay Pride è lì a dimostrarlo. E chi scrive è disposto a essere in prima linea.

E’ arrivato il momento di raccogliere  quella scarpa col tacco numero 45 e di farla sventolare per aria, proprio come fece Sylvia Rivera. Perché se non si ha il coraggio di andare contro la legge, quando questa è sbagliata, non si ha alcuna dignità e ci si presta a divenire complici  di un regime illiberale. Se i gay dello Stonewall non si fossero ribellati alla legge e alla polizia, 40 anni or sono, oggi non avremmo nulla da celebrare. Si  abbia il coraggio dei calmi. E si vada avanti a ogni costo, in nome della libertà e della dignità.



I  pride, per quanto belli e sempre più numerosi in Italia, non bastano a farci vincere la battaglia per l’uguaglianza. Occorrono sforzi straordinari, in un momento di oggettiva crisi, e certamente un clima più sereno nei rapporti interni alla comunità glbt.

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COSA C’E’ OLTRE L’ORGOGLIO?

 

Gianni Rossi Barilli 

agosto 2009

 

 

 

 

Con il pride nazionale di Genova del 27 giugno e con quello di Catania del 4 luglio, (di entrambi gli eventi offriamo una parziale documentazione nelle immagini di queste pagine) si è conclusa la lunga e variegata celebrazione dei quarant’anni da Stonewall. E si presenta l’opportunità/necessità di tracciare un bilancio, utile ci auguriamo per guardare avanti con un filo di prospettiva.

Le manifestazioni in se stesse si sono senz’altro rivelate all’altezza delle aspettative e hanno restituito la fotografia di una realtà glbt che non demorde, anche in momenti oggettivamente difficili come quello attuale, nel pretendere giustizia. In un paese più che mai refrattario all’idea dell’uguaglianza tra le persone e alla certezza delle regole.


Essere scesi in piazza in tanti, dal nord al sud, è un segno di forte vitalità e resistenza civile, eppure il messaggio sembra essere caduto almeno in parte nel vuoto. I pride, a cominciare da quello nazionale di Genova, hanno avuto un ottimo risultato sulla scala locale. Hanno creato dibattito e picconato i luoghi comuni ostili, stimolato una crescita culturale e un prevalente atteggiamento simpatizzante nella cittadinanza, com’era del resto spesso accaduto anche negli anni passati. Ciò che sembra invece essersi inceppato è il ruolo politico più generale delle nostre manifestazioni di giugno. Ormai non siamo più da tempo una novità nel panorama, e i pride fanno ormai notizia più o meno come il raduno degli alpini: belle foto colorate in cronaca e morta lì. La richiesta di parità e laicità, invece, chi la sente più?

Sta forse accadendo da noi quello che è accaduto in molti altri paesi, dove le celebrazioni dell’orgoglio glbt, da dirompente rivendicazione di identità e in quanto tale politica, sono via via diventate una più pacifica festa popolare che ha il grande pregio di attirare un po’ di turisti. La differenza, però, è che da noi l’uguaglianza delle persone glbt è ancora un vago sogno. Sul tema dei diritti siamo sempre al punto di partenza, mentre i progressi sul terreno della convivenza sociale sono troppo spesso smentiti da episodi di violenza e intolleranza.

E noi che facciamo in tutto ciò? Facciamo a borsettaie tra noi. Il movimento glbt, come presumibilmente tutti i gruppi umani organizzati e non, ha vissuto fin dalla sua nascita vivaci e non sempre incruente dialettiche interne. Nulla di strano perciò che ci sia competizione e divergenza tra le persone, e qualche volta anche tra le idee. Il problema è che in un momento in cui ci sarebbe bisogno di uno sforzo straordinario per uscire dal pantano di una realtà che non cambia, darsi alle guerre (anziché alle battaglie) civili, non è esattamente una strategia vincente. Per non risultare incomprensibili, oltre che omertosi, facciamo qualche esempio:




1. Sopravvivono, a un anno di distanza, denunce e controdenunce ereditate dai litigi tra Facciamo Breccia e Arcigay al pride nazionale di Bologna 2008.

2. Negli ultimi mesi abbiamo assitito a diversi round di una lotta senza esclusione di colpi tra il portale Gay.it e i vertici di Arcigay nazionale (a cominciare dal presidente Aurelio Mancuso di cui Gay.it ha chiesto esplicitamente le dimissioni). Abbiamo scelto di non raccontare minutamente i particolari di questo scontro, del resto ampiamente coperto da altri mezzi di comunicazione gay e non, per non essere costretti a prendervi parte e per non contribuire in nessun modo a mantenere alti i toni di una polemica che non condividiamo nei metodi(da ambo le parti) al di là di qualsiasi merito politico.

3. Arcigay, la più forte sigla del mondo glbt nostrano, attraversa un momento di crisi e scontri interni da cui non uscirà nella migliore delle ipotesi prima di gennaio, data in cui si svolgerà il prossimo congresso nazionale. Il che non aiuta a promuovere l’iniziativa politica all’esterno.

Riportando pettegolezzi e malumori potremmo aumentare virtualmente all’infinito il numero degli esempi, ma questi ci sembrano sufficienti a comprendere che il clima di collaborazione nella comunità non è al top. E’ facile attribuire l’introversione dell’aggressività alla difficoltà di agire “là fuori”, ma puntualizzare ancora una volta che i veri nemici da combattere stanno altrove non appare purtroppo superfluo. Ristabilire un clima costruttivo è una necessità, per poter pensare al muro di gomma contro cui rimbalzano da troppo tempo le nostre richieste di parità e per contrastare il sempre più cupo e diffuso qualunquismo secondo cui se tutto fa schifo ognuno fa come meglio gli conviene. Questa è una brutta malattia italiana, e i gay non fanno certo eccezione (anzi), ma non si cura strappandosi la parrucca a vicenda. Godiamoci quindi quello che resta dell’estate e speriamo in un autunno rinfrescante.


 

                                    2010




 


29 gennaio 2010          

da GLI ALTRI   ( direttore SANSONETTI)


 
IL CONGRESSO ARCIGAY
 


Infida bugiarda indispensabile politica

Due diverse concezioni della battaglia per il riconoscimento dei diritti

Si confronteranno a febbraio: basta il movimentismo per ottenere i risultati?

 di Aurelio Mancuso

Arcigay a Congresso. Si tratta di un evento complesso, teso e conflittuale in cui si confrontano due mozioni che non si dividono sugli obiettivi di fondo ma sul ruolo e l’organizzazione di Arcigay. Ho registrato una forte volontà da parte di diverse anime dell’associazione ad un’assunzione diretta di responsabilità e questo mi ha portato a non ricandidarmi alla presidenza, dopo ben otto anni, prima come segretario e poi come presidente. Sommati ai quattro all’interno della segreteria nazionale, portano a ben dodici anni di attività quotidiana dentro la più grande associazione gay italiana. E’ un bene, che mentre la politica non riesce a sviluppare concreti percorsi di rinnovamento delle leadership, nell’associazionismo si sia consapevoli, proprio in un momento storico difficile e gravido d’incognite per il futuro, della necessità di andare avanti, anche passando attraverso discussioni aspre. La necessità di veder riconosciuti pari diritti e doveri rappresenta la questione di fondo su cui Arcigay, più di altri, si confronta duramente. L’essere l’organizzazione più importante ha significato in anni passati assumersi il compito di sollecitare da vicino le sinistre a comprendere nel loro programma i diritti delle persone lgbt.

La delusione per quello che è avvenuto è ancora vivissima; per questo si cercano strade nuove che possano in questa fase anche scavalcare le istituzioni legislative. Prima fra tutte la via giuridica, abbracciando la campagna proposta da Rete Lenford e Certi Diritti che organizzano coppie lgbt che si recano in Comune e chiedono la pubblicazione del loro matrimonio. Sul conseguente rifiuto si apre una causa civile e a oggi ben quattro tribunali hanno chiesto alla Corte Costituzionale di pronunciarsi in materia. Personalmente ritengo questa campagna ottima dal punto di vista dell’impegno diretto da parte delle coppie gay. Nutro invece timori sul risultato finale. La Corte Costituzionale, probabilmente tra qualche mese si pronuncerà. Non sta nelle nostre possibilità sapere come si esprimeranno i giudici. Le memorie presentate da straordinari ed esperti avvocati sono sostenute da motivazioni così importanti e sostanziose che sono certo che la Corte si cimenterà in una sentenza particolareggiata e importante. La domanda però è: crediamo davvero che la Corte potrà pronunciarsi a favore del matrimonio gay? E’ assai improbabile.

Arcigay aderirà a questa campagna. Ma non va bene pensare che siccome la politica si è dimostrata cinica e avversa ci si debba ora concentrare unicamente sulla via giuridica. Questo potrebbe farci ricadere in errori già fatti in passato. Il Parlamento non si può aggirare, non perlomeno nell’ordinamento italiano, quindi, quel muro di gomma eretto dai partiti rimane il principale ostacolo da superare. In questi anni Arcigay si è rivolta direttamente ai tribunali per difendere persone omosessuali aggredite. In molti casi nelle aule giudiziarie è stata accolta la nostra richiesta di costituzione di parte civile, una novità assoluta, che riconosce il nostro ruolo di rappresentanti dei diritti legittimi di una comunità. Altra cosa è pensare che attraverso i tribunali si possano ottenere norme legislative negate dalla politica.

Nel Congresso di Arcigay il confronto, quindi, sulle azioni da preferire sarà l’altro importante elemento politico. Le iniziative, le azioni dirette, e tutto quello che in questi anni è stato messo in campo, sicuramente vanno valutate, anche criticamente, ricercando strumenti nuovi, che partano anche da campagne più simili alle culture anglosassoni. Rimane una debolezza strutturale su cui Arcigay è sensibile e che dibatte da tempo: la capacità di coinvolgere il popolo lgbt rispetto a una dura e complessa battaglia di riconoscimento dei nostri diritti. Negli ultimi 25 anni (quest’anno ricorre l’anniversario della nostra nascita) abbiamo saputo far vivere una rivoluzione gentile che ha completamente mutato la vita di centinaia di migliaia di persone lgbt, prima clandestine, oggi soggetti sociali visibili e consapevoli. Manca un ultimo e decisivo passo, che ritengo imprescindibile se si intende davvero far crollare l’interdizione politica nei nostri confronti. Bisogna costruire una più forte, diffusa, numericamente rilevante comunità lgbt italiana. Su questo punto non ci sono differenze dentro Arcigay ma sarà il futuro a dirci se questa oggettivamente corretta intuizione determinerà scelte politiche e organizzative o se resteranno solo parole sui nostri documenti. In entrambe le mozioni congressuali esistono le energie, le idee, le persone che potranno far progredire ulteriormente un’associazione che per numero d’iscritti, capacità di relazioni sociali e politiche, radicamento sul territorio, è unica nel suo genere, quasi un caso raro nel movimento lgbt internazionale. Questo ha determinato anche tentazioni egemoniche, conflitti, atteggiamenti aristocratici che vanno superati. Allo stesso tempo le tante critiche che naturalmente piovono da più parti, rappresentano il sale della democrazia, quando sono limpide e non organizzate in sapienti campagne denigratorie svolte al solo scopo di coprire operazioni politiche di dubbio gusto.

Terza e ultima questione, che non è presente nei documenti congressuali, la necessità prima enunciata di costruire una consapevole comunità lgbt e ciò attiene alla capacità di organizzare il consenso. In Italia l’idea di un partito gay appare ai più ridicola e fuori portata. I vari sistemi elettorali per le politiche e le regionali non consentono operazioni emotivamente affascinanti, praticamente non raggiungibili. Ma il consenso può esser organizzato in vari modi, muovendosi sulla scorta di quanto anche in  Italia fanno da decenni importanti gruppi di interesse sociale e culturale. Bisogna darsi degli obiettivi chiari, scegliere di volta in volta gli interlocutori interessati e strutturare la comunità per territorio e per interessi al fine di poter contare effettivamente su un numero cospicuo di voti da orientare. Il livello delle elezioni comunali, soprattutto nelle grandi città dove vivono le più ampie comunità lgbt potrebbe essere il terreno principale di sperimentazione. Collegato a questo c’è la necessità di saper leggere cosa è accaduto nelle tornate elettorali degli ultimi anni, dove milioni di persone non si sono recate alle urne, tra cui molti gay e tante lesbiche. I nostri temi, collegati a quello della laicità, delle diverse riforme civili che mancano in Italia, possono coagulare ampie aree di cittadini e di cittadine. Saranno i futuri dirigenti di Arcigay ad affrontare le questioni qui poste e altre altrettanto importanti tralasciate per brevità. Una cosa è certa: Arcigay ha sempre saputo dimostrare di essere un’avventura collettiva consapevole delle sue responsabilità, per questo sono certo che la sua funzione è oggi ancor più necessaria di un tempo e che alla fine, insieme, riusciremo a rispondere alla nostra mission: ottenere le persone lesbiche e gay cittadini/e con pari dignità giuridiche e sociali.

 


 

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