sabato 3 dicembre 2016


Il marchio sui documenti dai gay in Baviera è una discriminazione che richiama sinistri esempi del passato.

Ma non la sola: paese che vai, intolleranza che trovi.

 

 

 

 

 

 

RISPETTO PER L’OMO

 

 

di Enzo Biagi

 

 

 

 

               Ognuno aveva un numero e un colore. Rosso, voleva dire oppositore. C’erano i neri, renitenti al lavoro e i verdi, criminali di professione, e i numeri rosa, per i “diversi”, e i gialli per gli ebrei. Sul loro documenti c’era anche una sigla “j” che sta per “jude”. Chi comandava in Germania era un tale Adolf Hitler.

              Adesso è diventato un caso di comportamento di certi poliziotti di Monaco, che sul passaporto di alcuni stranieri hanno aggiunto una annotazione: forse una “h”, che potrebbe voler dire omosessuale, ma anche prostituto, uno che esercita nel mondo degli invertiti. E’ una classifica basata sulle preferenze amatorie alla quale non siamo disponibili, e che riporta alla memoria tempi infelici.

              E’ una forma di discriminazione inaccettabile, che riconduce a manifestazioni odiose di intolleranza o addirittura di razzismo. Per i “tutori dell’ordine”, bavaresi, che arrivano fino a ispezionare i giochi delle mutande, rischierebbero di essere segnalati anche Michelangelo e Leonardo, figuriamoci quell’esibizionista di Oscar Wilde e l’irrefrenabile André Gide, che cadde in tentazione perfino durante il viaggio di nozze. E addirittura il “classico” Thomas Mann, così tormentato da incertezze, potrebbe avere, oltre alla nutrita e ammirata bibliografia, anche una scheda nel casellario giudiziario.

               E’ vero che la cattolica Baviera è il più conservatore del Lander, la figura più eminente che ha espresso nel dopoguerra è stato Franz Josef Strauss, leader dei cristiano-sociali, definito con ironia dagli avversari “il Churcill delle Alpi”, uno che voleva promuovere il riarmo psicologico dei tedeschi, il tipico “uomo forte”.

Aveva idee precise e otteneva larghi consensi. “La politica” affermava uno dei suoi motti “è saper dominare”.

Non aveva molti riguardi per i problemi psicologici e morali, diceva, per esempio: “Io non sono un vigliacco perché non sono un obiettore di coscienza”. Erano frequenti i suoi appelli “alla reazione sana della gioventù”.

               Anche il nazismo si propose di far pulizia, di “liberare la vita pubblica dal profumo soffocante dell’erotismo moderno”. Cinema e teatri, letteratura e manifesti dovevano ispirarsi alla nuova etica: venne subito ordinata la chiusura dei locali frequentati dai pederasti, calcolarono che fossero più di un milione, e degli alberghi a ore, e fu proibita la vendita, coi distributori automatici dei preservativi.

Tutto questo rigore non impedì all’ex studenti Horst Wessel, bardo delle camicie brune e autore dell’inno In alto la bandiera, di fine accoppiato dalla rivoltellata di una puttana. Ernst Rohm, comandante delle squadre di assalto, si intratteneva con giovanottoni nei bagni turchi e nel Kleist Casino di Berlino, rifugio di gentiluomini dai gusti insoliti, e anche quando Hitler gli sparò addosso era in compagnia di un’allegra, gonfia e sudaticcia brigata.

                Il fatale riferimento al Terzo Reich, in queste circostanze, è ovvio e ricorrente, come per ogni manifestazione del naziskin, gli imbecilli violenti che ostentano incredibili capigliature, inattuali svastiche e aggressive testimonianze di nostalgici costumi.

               Il marchio “omo” usato abusivamente non è solo una discriminante tra gli etero e gli altri, ma anche una forma di xenofobia: colpiva soprattutto i gay arrivati da fuori. Non è insomma un ritorno al passato, ma rivela preoccupazioni che nascono dal presente. Le ondate di immigrati, provenienti in gran parte dall’Est, creano seri problemi anche nella Bundesrepublik.

               Non credo che sia in arrivo un’altra Gestapo, ma capisco che quella stampigliatura crea allarme, prima di tutto tra chi già una volta ha sofferto di dolore provocato da queste iniziative che offendono la dignità umana.

Qualcuno teme che la Baviera sia solo un prologo: da quella parti circola ancora una barzelletta. “Hanno arrestato tutti i ciclisti e tutti gli ebrei” dice uno. E l’altro: “Perché i ciclisti?”

                  Paese che vai, intolleranza che trovi, e se in Israele stanno pensando di aprire una spiaggia “tutta per loro”, con turni bisettimanali di ingresso libero anche per le lesbiche, nello Zimbabwe lanciano una campagna contro tutta la compagnia, paragonata ai “ladri e gli assassini”.

 

                  Da noi, prende la parola il presidente dell’Arcigay e denuncia i soprusi di cui sono vittime gli aderenti alla associazione: 40 mila, in rappresentanza anche dei 3 milioni di italiani con identiche propensioni. Afferma che nei loro ritrovi non c’è n’è droga né trasgressione perché loro aspirano alla “normalità”: se si avverte una ossessione è quella del sesso.

 

                   Ma c’è chi negli impieghi “distingue”: puoi anche essere bravissimo, ma “se frequenti certi ambienti” ti lasciano a spasso.

E c’è chi annota le targhe davanti a certi luoghi di incontro per potere poi identificare i frequentatori. Il pregiudizio è sempre faticoso cacciarlo.

                  Franco Grillini è contento perché l’omosessualità non è più considerata dalla Organizzazione mondiale che si occupa della salute una malattia mentale, ma una variante del comportamento umano. Che va rispettata, mi pare ovvio, ma diventa fastidiosa quando viene esibita. Come la virilità ostentata, del resto.

                 Non vedo che ragioni ci siano per essere orgogliosi dell’attività erotica, per metterla in mostra addirittura sulle strade, o piazzando uomini e donne nudi come “provocazioni”: ma di chi?, in una sfilata di moda. Che non è l’arte di svestirsi.

 

PANORAMA

31.08.1995

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